La Stampa, 1 febbraio 2018
La battaglia populista delle tasse
Populista è chi il populista fa. Il presidente americano, Donald Trump, è poco amato dalle classi dirigenti europee perché «populista». Ma la sua riforma fiscale ha dietro un pensiero. Un partito politico e un più vasto movimento di idee da anni si interrogavano su come cambiare il fisco americano. Alla prima occasione, si sono messi alla prova.
Le tasse sono al centro della nostra campagna elettorale. È un po’ una sorpresa. Negli ultimi mesi, abbiamo parlato molto di degrado delle periferie, immigrazione, Europa, disoccupazione tecnologica, banda larga: poco di fisco.
L’approssimarsi delle votazioni di marzo ha cambiato tutto. La coalizione di centrodestra ha fatto sua la proposta di una «flat tax», una aliquota unica per l’imposta sul reddito. Il Movimento Cinque Stelle punta tutto su un «reddito di cittadinanza» che attrae soprattutto gli elettori del Sud. Il Partito democratico, impegnato in una strana recita senza trama né azione, si limita a controbattere a Forza Italia e Lega.
Questa discussione potrebbe essere utile se non fosse esclusivamente «segnaletica». In politica, questo è importantissimo: non solo per chi si mobilita sulla base di una parola d’ordine o di un’altra. Le dichiarazioni di principio ci aiutano a capire non tanto cosa farebbero, i diversi leader, una volta al potere, ma che cosa non farebbero. L’elettorato può perdonare chi non realizza le proprie promesse, ma non chi le realizza al contrario.
La «flat tax» è in tutta evidenza utile al centrodestra per rassicurare i propri elettori: siamo ancora la coalizione del «meno tasse per tutti». Ma, a fronte di un Berlusconi che saggiamente ha rimandato la discussione sull’aliquota e preferisce sottolineare l’importanza del principio, la Lega non si schioda dal suo 15%. Siccome ogni tanto i soci sono i concorrenti più temibili, non è sorprendente che voglia differenziarsi da Forza Italia. E tuttavia un’aliquota così bassa, che dovrebbe magicamente finanziarsi da sé attraverso incrementi di gettito, offre un formidabile argomento ai suoi avversari.
I dem non si limitano a mettere in guardia dai tagli senza coperture. Agitano con passione il vessillo della progressività. La «flat tax» sarebbe incostituzionale, perché è, come suggerisce il nome, un’imposta proporzionale. La Costituzione, però, prevede la progressività del sistema fiscale del suo complesso, non di una singola imposta. E tutte le proposte di cui si discute prevedono una quota esente. Ciò determina una progressività «per deduzione». Immaginiamo che la quota esente sia 10.000 euro annui. Un single che guadagnasse 20.000 euro annui pagherebbe un’aliquota fissa non su 20.000, ma su 10.000: la differenza fra il suo reddito e la deduzione base. Stesso discorso per un single che guadagnasse 200.000 euro annui: ma in quel caso l’aliquota si applicherebbe a 190.000. Insomma, tanto più basso è il proprio reddito e tanto meno l’aliquota reale si avvicinerebbe al valore della «tassa piatta». L’esatto contrario avviene quanto più elevato è il proprio reddito.
Se alle forze di centrosinistra interessa suggerire un’alternativa alla «flat tax», c’è solo l’imbarazzo della scelta. Ma l’impressione è che non sia quello il loro obiettivo. Così come non sembra proprio che i leghisti vogliano impegnarsi su un piano per la riforma fiscale particolarmente realistico (come quello illustrato da Nicola Rossi nel suo nuovo libro, «Flat Tax», Marsilio).
Tutti giocano una partita diversa: motivare la propria base, non proporre qualche disegno realizzabile. Non è anche questo «populismo»?
La questione fiscale è centrale nel rapporto Stato-cittadino. Proprio per questo, però, almeno gli esponenti più avvertiti delle forze politiche dovrebbero evidenziare sfide e problemi. Se ciò non avviene, è facile prevedere cosa produrrà questa zuffa ideologica: assolutamente nulla.