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 2018  febbraio 01 Giovedì calendario

In morte di Azeglio Vicini

Corriere della sera, Mario Sconcerti
Azeglio  è morto l’altro ieri sera nella sua casa di Brescia. Aveva 84 anni ed era da tempo malato. Una delle ultime uscite pubbliche è stata a marzo di un anno fa quando a Palazzo Loggia presentò il suo libro «Azeglio. Una vita in azzurro». Oggi alle 16.30, nel Duomo di Brescia, sarà celebrato il funerale.
L’ultima volta che l’ho sentito è stato pochi anni fa per un libro.  conosceva il calcio come pochi, era una delle mie fonti continue. La voce anche allora era quella di sempre, solo appena più lieve. Mi ringraziò e mi avvertì: «Non sono più quello di prima. I miei ricordi vanno e vengono». Feci finta fosse lo slogan di un vecchio signore ma lui insisté. Capii che era dentro il suo dramma. Parlammo a lungo, non sentii un errore, una lentezza. Ma si era spenta la piccola fiamma che aveva sempre avuto. 
 era un romagnolo quieto molto più complesso di quello che è sempre apparso. Era gentile, ma non rassegnato, c’era in fondo l’antica rabbia del mediano. È stato forse il commissario tecnico meno fortunato d’Italia. Comandava l’Italia del 1990, quella dei Mondiali in casa, delle notti magiche, di Schillaci e Baggio ancora ragazzo. Giocò 7 partite, ne vinse 6 e ne pareggiò 1, uscì imbattuto ma non bastò. In semifinale trovò l’Argentina di Maradona e Caniggia che ci riprese e ci batté ai rigori. Gli dettero molte colpe, resistette ancora due stagioni, poi arrivò Sacchi. 
 non era un genio, ma era tutto il resto. Aveva cultura, competenza, intelligenza e buon senso, amava sperimentare con metodo, cambiare l’idea, non travolgerla. Era stato anni e anni con i giovani dell’Under 21, anche lì aveva perso una finale europea ai rigori, ma aveva costruito squadre. Il suo momento più bello credo sia stato quando sostituì Bearzot in Nazionale. Erano persone sincere e opposte. Bearzot prendeva la vita di petto, Azeglio era un mite con la mosca al naso. Non erano fatti per capirsi. Sognava una rivincita che è venuta nei fatti ma non nei risultati. Bearzot è rimasto lontano. Quando si pensa a un’Italia di giovani, a pagine da voltare, si pensa alla sua Nazionale. Portò tutta la sua under con i grandi, da Donadoni a Zenga, a Mancini, fino a Baggio e Schillaci. Con l’Argentina Zenga prese il gol di Caniggia dopo 518 minuti di imbattibilità. Era una grande squadra, ma non bastarono nemmeno i 9 minuti che l’arbitro Vautrot concesse di recupero. Disse che si era scordato di guardare l’orologio, ma tutti erano lì ad aspettare l’Italia. 
 giocava un calcio moderno. Lo aveva visto tutto in diretta nei suoi tanti anni con le nazionali. Allora non c’erano partite in televisione, gli altri li conoscevi solo guardandoli. E  prendeva il meglio da tutti. Provò a giocare anche con Baggio e Mancini insieme, ma si negavano a vicenda. È stato un maestro pacato e insistente, un fuoco che preferiva la cenere, conosceva bene il calcio e la sua gente. Ho fatto tanto volte notte fonda nelle sue osterie di lusso, davanti al suo Amarone, ad ascoltare le storie di calcio che aveva dentro. Ho sempre pensato che quella sua cortesia abbia contribuito a togliergli l’ultimo scalino. Sembrava troppo educato per essere anche troppo bravo. Gli mancava la rudezza del campo. Adesso che non c’è più possiamo finalmente ringraziarlo.

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La Repubblica, Gianni Mura
Un uomo fortunato, Vicini.
All’esordio in Nazionale con la Grecia vince 2-0 con due gol di Bergomi, e quando mai li segna due gol in una partita, Bergomi? Fortunato in panchina, a guardar bene, neanche tanto.
Un buon lavoro con i giovani dell’Under 21 che poi, non avendo un blocco-Juve da convocare, si porterà nella Nazionale maggiore, quella delle notti magiche, quella che piaceva a tutti perché ci giocavano quelli della Juve, del Milan, dell’Inter, della Samp, della Roma, del Napoli, della Fiorentina. Agli europei del 1988, a proposito di fortuna, in Germania piovve a dirotto un solo giorno, quello di Italia-Urss. Più tecnici e veloci, più forti fisicamente loro. In semifinale, 2-0 per loro.
Vicini era subentrato a Bearzot, tradito in Messico dall’effetto-riconoscenza ma anche prosciugato dopo due mondiali esaltanti e difficili come quelli del ’78 (quarti in Argentina) e dell’82 (primi in Spagna).  a 35 anni era già nei ranghi federali e la prassi, allora, era che a un federale succedesse un altro federale. Era stato un onesto centrocampista. «Mi mancavano lo spunto veloce e il tiro preciso».
Romagnolo, settimo figlio di una coppia di mezzadri, era nato alla Cascina Rossa di San Vittore, fuori Cesena. Sua madre sognava che diventasse maestro elementare, e confesso di averlo visto in questo ruolo. Maestro, non professore, non docente, una grande pazienza, mai sentito alzare la voce. La sua Nazionale piaceva a tutti non solo per il gioco (si parlò a lungo di calcio-champagne) ma anche per la signorilità, il garbo, l’umiltà, il senso della misura e lo spirito di servizio con cui il ct parlava e agiva. Senza farsi pestare i piedi, senza polemiche forti, sempre difendendo “i suoi ragazzi”.
Perfino Zenga.
Fortunato ? L’Italia aveva giocato all’Olimpico e vinto tutte le sue partite senza incassare un gol. Gli occhi sbarrati di Schillaci, che chiuderà da miglior goleador del torneo, proposti mille e mille volte dai teleschermi con le voci di Nannini e Bennato, parlavano in silenzio e dicevano che tutti ce la possono fare. Da mondiale che si poteva vincere a mondiale che si doveva vincere il passo fu breve. «Era bellissimo, dall’Olimpico tornavamo al ritiro sui Castelli a passo d’uomo, tra ali di tifosi che cantavano, che applaudivano. Avessimo giocato sempre a Roma, avremmo vinto il Mondiale».
Probabile. In una sola città d’Italia la Nazionale poteva aspettarsi un clima ostile, o assai meno amico: a Napoli. Ma in un solo caso: che avesse contro l’Argentina di Maradona. E gli incroci del tabellone, con l’Argentina ripescata, portarono a Italia-Argentina. Che giocò quasi come fosse a Buenos Aires.
Partita tesa, Italia avanti, poi Da allenatore cominciò a 34 anni al Brescia. Nel ’68, entrò in Figc. Nel ’75 ct dell’Under 23, dal ’76 all’86 dell’Under 21. Nell’86 sostituì Bearzot alla guida della Nazionale.
Cesena e Udinese dopo l’azzurro Agli Europei ’88 uscì in semifinale contro l’Urss. Al Mondiale ’90 fu eliminato ai rigori dall’Argentina in semifinale a Napoli, pagando il gol di Caniggia su errore di Zenga, il primo subìto in tutto il torneo. L’Italia poi finì terza, battendo l’Inghilterra Zenga sbaglia l’uscita e Caniggia segna di testa (evento piuttosto insolito). Si va ai rigori: il portiere più famoso e fino a quel giorno imbattuto s’inchina davanti al semisconosciuto Goycochea.
Donadoni e Serena non trasformano i rigori, Argentina in finale con la Germania, Italia che batte l’Inghilterra per il terzo posto, a Bari. Sul banco degli imputati con Zenga sale : avrebbe dovuto riservare a Maradona un marcatore più feroce, tipo Vierchowod. In realtà, quel 3 luglio Maradona non fece niente di miracoloso, giocò una partita normale.
Di quell’avventura  ricordava l’affetto dei tifosi, anche a distanza di anni, e lo share (87%) di Italia-Argentina. Gli spiaceva di non avere mai schierato Mancini. Sospettava un aiutino, altrove, da parte del già chiacchieratissimo arbitro Vautrot. «Al 10’ del secondo tempo, con noi avanti, Giusti tocca il pallone con le mani ed era già ammonito. Vautrot aveva in mano il cartellino giallo, che avrebbe decretato l’espulsione di Giusti, ma ha preferito fare un predicozzo».
Con  si poteva parlare di tutto, non solo di calcio. Delle sue quattro passioni: Coppi, Valentino Mazzola, quindi il Grande Torino, Garibaldi e la lirica. Di come andava il mondo.
Era stato lui a rendere obbligatorio l’inglese nei corsi di Coverciano. Ha avuto molto azzurro anche nelle maglie da giocatore (Samp e Brescia). Dava l’idea di un vicino di casa sempre pronto a dare una mano, disponibile ma discreto. Se nel calcio la fortuna gli è mancata, nella vita ne ha avute: la moglie Ines, la donna di una vita, con lui dal 1955, tre figli (un’insegnante e due avvocati). La biografia di Azeglio l’hanno scritta in famiglia.
Per la mancata qualificazione agli europei del ’92 fu sostituito da Arrigo Sacchi, pure romagnolo, primo a essere pescato fuori dai ranghi federali. «Ma si sapeva già a maggio che gli stavo scaldando la panchina. Berlusconi non lo voleva più al Milan e ha fatto il suo interesse, la Federcalcio è stata piuttosto debole. Alla prima partita di Sacchi Rizzitelli mi dedica il gol fatto alla Norvegia e guarda caso da allora non è più stato convocato. Sacchi non condivide le mie idee e io non condivido le sue. Credo che in Italia abbia vinto poco, con una squadra come il Milan». Nei bilanci non dimenticava mai Fabio Capello. «Mi ha salvato la vita in Brasile, ero andato sotto un’onda grande, Fabio mi preso per il collo e tirato fuori». A Pelé preferiva Maradona, a entrambi Di Stefano. E diceva: «Se nella mia Italia avessi potuto far giocare Riva e Tardelli, non ci avrebbero battuto neanche i marziani».
Ma andò diversamente, e adesso che se ne va Azeglio, un galantuomo, è giusto dirgli grazie, grazie comunque, grazie davvero.
Gianni Mura


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Il Messaggero, Ugo Trani
ROMA Chissà se ad Azeglio, malato da tempo e morto ieri a Brescia all’età di 84 anni (alle 16,30 i funerali al Duomo), farà piacere di essere ricordato più per le notti magiche che per i risultati. Di sicuro quel colpo di testa di Caniggia che poi portò la Nazionale a giocarsi (e a perdere) la semifinale contro l’Argentina di Maradona ai rigori non gli ha permesso di fare il pieno e quindi di non dover scegliere che cosa lasciare al nostro calcio ultimamente umiliato e spaccato. Addirittura, dopo 60 anni, senza mondiale. Che Azeglio, nell’estate del 90, avrebbe meritato di vincere e che ha sempre sentito suo. A ragione. Mai come quella volta l’azzurro ha colorato e unito il Paese. Che ha condiviso, e mai contestato, le scelte del ct di Cesena, capace di trasmettere il suo spirito romagnolo nello spogliatoio e ll’esterno. Allegro, e non solo nel privato al momento di raccontare le sue barzellette solo lievemente osée, e caparbio, come quel gruppo che in campo non ha mai smesso di lottare. E quei suoi giocatori ci hanno fatto divertire. Sognare e stare bene insieme. E cantare, allo stadio e per strada, l’inno di Edoardo Bennato e Gianna Nannini. L’Olimpico sold out e tricolore per le 5 partite vinte nella Capitale. Alla fine i successi furono 6 (l’ultimo per il 3° posto, conquistato battendo l’Inghilterra a Bari) in 7 partite. L’unico pari a Napoli: non sporcò l’imbattibilità, ma a  tolse la finale e forse il titolo.
ALTO PROFILO
Azeglio, nome ingombrante e figura rassicurante, è stato prima calciatore. Vita da mediano. Nel Lanerossi, nella Sampdoria, dove ha giocato a centrocampo con Boskov e lanciato Brighenti che diventò il suo vice in Nazionale, e al Brescia. Dove ha iniziato ad allenare e dove, dal 1963, si è fermato fino a ieri con la moglie Ines e i figli Ofelia, Manlio e Gianluca. Ma la priorità, nel lavoro, è sempre andata all’Italia e alla Federcalcio (farà osservare 1 minuto di silenzio nelle gare del weekend).  entrò 50 anni fa a Coverciano, senza mai più uscire dal centro tecnico federale. Il mestiere l’ha imparato lì, selezionatore della cantera sotto la collina di Fiesole, come Valcareggi e Bearzot. Ha guidato l’Under 23, è stato osservatore e, per 10 stagioni, in panchina con l’Under 21 con cui perse l’Europeo contro la Spagna, ancora ai rigori, a Valladolid. Ma già da ct dell’Italia, chiamato al posto di Bearzot dopo il mondiale in Messico. Proprio quell’Under lo portò quasi sul tetto del mondo. Già all’Europeo dell’88 in Germania quei ragazzi si fecero riconoscere: Zenga, Maldini, Ferri, Giannini, Donadoni, Mancini e Vialli. Saranno loro il nucleo storico nel 90, con i più esperti Bergomi, Baresi, De Agostini, Ancelotti, De Napoli, Vierchowod, Serena e Carnevale. I suoi «azzurri» come sempre li ha chiamati. Con affetto e rispetto. A loro ha concesso anche qualche divagazione extra campo. Ma senza fare distinzioni. E si capì quando, sul più bello del mondiale, lanciò Schillaci, 6 reti e gli occhi sempre sgranati, e Baggio, 2 gol e ricami d’alta qualità, lasciando fuori i suoi pupilli Mancini e Vialli.
BEFFA DOPPIA
«Abbiamo sempre giocato meglio degli avversari» il suo bilancio, a caldo, dopo aver conquistato il 3° posto a Bari.  lasciò l’Italia nel 91, dopo il palo di Rizzitelli a Mosca che costò la partecipazione all’Europeo in Danimarca, a Sacchi. Romagnolo come lui (di Fusignano, però), ma mai sopportato. Arrigo si comportò di conseguenza, con Rizzitelli escluso dalle convocazioni dopo aver dedicato un gol al precedente ct. Non legò con il suo erede e nemmeno con Bearzot, non perdonandogli di averlo sempre tenuto il più lontano possibile dal club Italia. Meglio il rapporto con Capello che, a sentire Azeglio, lo salvò da un’onda anomala a Rio. Brevi le esperienze di fine carriera con il Cesena e l’Udinese. È stato poi alla guida dell’Assoallenatori e presidente del Settore Tecnico, carica lasciata nell’estate del 2010 a Baggio. Già, a uno dei suoi azzurri.
Ugo Trani

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La Gazzetta dello sport, Alberto Cerruti
Diceva che il tempo è galantuomo. E invece Azeglio  è stato consumato poco alla volta proprio dal tempo, che prima gli ha arrugginito la voce, poi gli ha spento il sorriso e infine, a 84 anni, gli ha chiuso gli occhi per sempre, strappandolo all’amore dell’inseparabile moglie Ines, dei tre figli Manlio, Lia, Gianluca e dei tre nipoti Roberta, Azeglio e Alessandro. «Il tempo è galantuomo», ripeteva quando lasciò la Nazionale nel 1991, dopo il pareggio di Mosca che gli impedì di partecipare a Euro ’92, sperando di essere rivalutato a distanza, malgrado la beffa nel Mondiale. Per tutti, infatti,  rimarrà il c.t. di Italia ’90, vertice di una carriera intensa che lo ha visto protagonista a ogni livello, come giocatore, allenatore e dirigente. E sempre con il suo tono pacato, grazie al quale lo avevamo definito «il c.t. del sorriso e del buon senso», capace di farsi voler bene da tutti, giocatori e tifosi.
LA CARRIERA Romagnolo, nato a Cesena il 20 marzo 1933,  incomincia proprio nel Cesena, presieduto dal Conte Rognoni. Centrocampista tecnico e generoso, per sua stessa definizione, passa al Vicenza allora Lanerossi, e a 22 anni debutta in Serie A contro l’Inter, poi va alla Sampdoria dove rimane sette anni, giocando con Skoglund e Brighenti, suo futuro «vice» in Nazionale. Chiude a Brescia nel 1966 e va subito in panchina, ma soltanto per un anno. Brescia diventa la sua casa definitiva, dove crescono figli e nipoti. La svolta nel 1968 quando, a 35 anni, va a studiare gli allenamenti del Manchester United e lì trova Valcareggi, c.t. dell’Italia neocampione d’Europa. Bastano poche parole e nasce l’intesa tra i due., che gli sarà sempre riconoscente, entra nei quadri federali come responsabile della Nazionale Juniores, in cui lancia Antognoni allora all’Asti Macobi, aiutando nel frattempo Valcareggi ai Mondiali del 1970 e del 1974. Poi, quando Bearzot diventa c.t. dell’Italia nel 1975, viene promosso alla guida dell’Under 21, viaggiatore instancabile che ricordiamo con i suoi appunti al Mondiale Juniores del 1977 a Sousse, in Tunisia, al seguito dei ragazzi di Acconcia. I giovani sono la sua passione e con lui crescono a livello umano e professionale. Osservatore anche per Bearzot nei suoi tre Mondiali (1978, 1982 e 1986), sfiora l’Europeo con la Under 21 sfuggitogli soltanto ai rigori contro la Spagna. L’amarezza è compensata dal felice trapianto dei suoi azzurrini nella Nazionale che  guida dall’8 ottobre 1986, in un’amichevole a Bologna, contro la Grecia. Al fianco dei quattro campioni del Mondo rimasti, Bergomi (che segna la doppietta del 2-0), Baresi, Dossena e il capitano Altobelli, fa debuttare Zenga, Bonetti e Donadoni, rilanciando Nela, Bagni, De Napoli e soprattutto Vialli, svezzato proprio nella sua Under in coppia con Mancini.
ITALIA ’90 Smaltita la delusione del Mondiale del 1986, c’è un contagioso ottimismo attorno alla nuova Nazionale. Pochi sanno, però, che l’estate dopo, nel 1987, mentre è in Brasile per aggiornarsi sul calcio sudamericano,  rischia di morire, salvato nel vero senso della parola da Fabio Capello, che lo afferra tra le acque mentre lui sta per annegare a Rio de Janeiro, tradito da un’onda improvvisa. Ringraziato e mai dimenticato Capello,  non dimentica nemmeno tutti i suoi giovani della Under, che porta all’Europeo del 1988 in Germania Ovest, dove l’Italia incanta tutti, fermata soltanto in semifinale dall’emergente Urss di Lobanovskij. Non è una sconfitta, ma la base per le «notti magiche» di Italia ’90, in cui  al debutto presenta dieci giocatori che avevano esordito anche nella prima partita del precedente Europeo, con l’unica eccezione di Carnevale al posto di Mancini. Poi ha il merito di lanciare l’ultimo arrivato Schillaci e soprattutto Baggio, che tolgono il posto ai titolari Vialli e Carnevale. La nuova coppia si scatena nella terza partita, dopo gli 1-0 contro Austria e Stati Uniti, firmando un esaltante 2-0 contro la Cecoslovacchia. È il successo che vale il primo posto nel girone e la permanenza a Roma, dove l’Italia batte anche Uruguay e Irlanda, con gli indimenticabili rientri notturni nel ritiro di Marino, sul bus che procede sempre più a fatica, frenato dai tifosi in festa. Se l’Italia del 1982 era stata la più forte, quella di  è la più divertente, perché entusiasma tutti, facendo sognare un meritatissimo trionfo. Il sogno, invece, si interrompe a Napoli, contro l’Argentina di Maradona, con la beffa ai rigori. Quei maledetti rigori, che lo puniscono senza colpe per la seconda volta. Improvvisamente  passa dagli elogi alle critiche, per aver rilanciato Vialli al posto di Baggio, inizialmente in panchina, prima di chiudere con il successo contro l’Inghilterra che vale il terzo posto. Sei vittorie e un pareggio, Schillaci capocannoniere, gli unanimi complimenti per il bel gioco, le emozioni tramesse, con il record, tuttora imbattuto, di 27 milioni di telespettatori per Italia-Argentina, non contano più nulla. È l’inizio della fine per, condannato a qualificarsi a Euro ’92, ma già disturbato dalle voci sull’arrivo di Sacchi. La sconfitta contro la Norvegia e il palo di Rizzitelli a Mosca, che inchiodano l’Italia sullo 0-0, gli sono fatali malgrado lui abbia sempre avuto un’altra idea. «Anche se ci fossimo qualificati per l’Europeo – ci confessò quando compì 80 anni – mi avrebbero mandato via. In fondo sono stato la prima vittima di Berlusconi, precedendo Zoff che diede le dimissioni per le sue critiche dopo l’Europeo del 2000».
ORGOGLIOSO Come volevasi dimostrare, infatti, al suo posto arriva Sacchi, sponsorizzato da Berlusconi, e il Grand’Ufficiale per meriti azzurri  incomincia una nuova carriera. Tornato per pochi mesi in panchina, prima a Cesena e infine a Udine nel 1993, si batte per gli altri, come presidente dell’Associazione Allenatori e come presidente del Settore Tecnico fino al 2010. Orgoglioso dei suoi record, perché nessun allenatore italiano ha partecipato a 6 Mondiali come assistente o c.t., guidando tutte le rappresentative dalla Juniores alla A, con il massimo di ascolti televisivi. Ma soprattutto orgoglioso di essere stato amato fino all’ultimo giorno dalle sue grandi famiglie: la prima a casa, l’altra sparsa per l’Italia, con i suoi «ragazzi» che oggi lo saluteranno a Brescia, e i tanti tifosi che gli hanno sempre dimostrato il loro affetto. E allora, nonostante le ultime sofferenze, avevi ragione caro Azeglio. Il tempo è stato galantuomo. Proprio come te.
Alberto Cerruti

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La Gazzetta dello Sport, intervista a Totò Schillaci 
Gli occhi sbarrati. D’incredulità. Come quella sera contro la Cecoslovacchia, un rigore negato dall’arbitro Quiniou. Le notti magiche di Italia ’90. Totò Schillaci. Il boom di un ragazzo di periferia. Ma stavolta la notte solo dentro una stanza è buia, tanto buia, la prima senza il «suo mister», «senza il mio secondo padre»...
Cioè colui che le ha dato una chance mondiale colta al volo.
«mi disse: “Ti ho voluto io contro tutto e tutti, adesso cerca di sfruttare quest’occasione”. In fondo ero solo un giovane che aveva fatto bene col Messina in Serie B nella stagione 1988-89 e che aveva retto bene al primo anno in A con la Juve. Gli devo tutto, certe cose non si possono dimenticare».
E poi cosa le disse il c.t. prima di entrare contro l’Austria?
«Semplicemente “Entra e fai gol, gioca semplice e ce la farai”. Era il 75’. E io ero una scommessa, ecco perché lui si prese un bel rischio. In panchina c’era gente come Serena e Baggio, poi entrai in campo e la mia vita cambiò: segnai il gol vittoria, e diventai capocannoniere del Mondiale».
Che ricordo porterà dentro?
«Era un uomo all’antica, dava consigli ma sapeva anche ascoltare. Per questo per me la sua figura resta quella di un secondo padre. Ho avuto allenatori eccezionali come Scoglio e Zeman, ma  lo metto al primo posto. Ebbe il coraggio di rischiare ad alti livelli, forse anche alcuni compagni di Nazionale mi vedevamo con un po’ di scetticismo».
E poi che cosa le confidò quando vinse la «scommessa»?
«Che gli avevo regalato una grande soddisfazione. Era un uomo riservato, ogni parola era pesata. A distanza di anni gli dico: “Grazie, grazie, grazie”».
Che effetto le fa ripensare a quella Nazionale paragonandola a quella da ricostruire di oggi?
«C’era un altro clima.  amava la squadra ed era ricambiato, portò alla ribalta nel ‘90 praticamente lo stesso gruppo dell’Under 21. Era una bella Nazionale e lui era l’allenatore di tutti gli italiani, allora c’era più coesione: oggi non è così».
Come lo racconterà ai ragazzi della sua scuola calcio?
«Dirò loro che quando se ne è andato, se ne è andata pure una parte di me».
Negli ultimi tempi vi sentivate?
«Sempre ci siamo tenuti in contatto, nell’ultimo periodo sapevo che non stava bene. Ora che non c’è più voglio solo mandare un abbraccio forte a tutta la sua famiglia sperando che venga ricordato da tutti adeguatamente. Voglio pensare che da lassù continuerà a guidarmi nelle mie scelte. È stato un esempio per tutti, il calcio italiano perde una grande persona».
Alessio D’Urso

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La Gazzetta dello Sport, G. B. Oliviero
Tante cose legavano Azeglio  e Roberto Donadoni: l’Under 21 e la Nazionale, certo, ma soprattutto alcuni tratti del carattere, l’educazione, la serenità, il rispetto. «Ormai ci si incontrava di rado ricorda l’allenatore del Bologna -, capitava a Coverciano o in qualche stadio, ma ogni volta era come se ci fossimo visti pochi giorni prima. Con lui c’era un rapporto che non veniva scalfito dalla lontananza». E forse questo è uno dei motivi per cui le notti magiche ce le portiamo ancora dentro, con quell’atmosfera così speciale da aver trasformato la delusione per la mancata vittoria nella gioia di aver vissuto un’avventura comunque bellissima: «Quel Mondiale fu diverso, forse unico per il clima che c’era nello spogliatoio e fuori. Nel tempo  aveva cementato il gruppo: il rapporto che c’era tra noi ci spingeva sempre a dare qualcosa in più. E senza il suo modo di fare e il suo esempio sarebbe stato impossibile».
RISPETTO E AFFETTO Il primo ricordo che Donadoni ha di  non ha un contorno definito ma in realtà è molto profondo: «La gioventù. Ecco, la mia testa ritorna a quegli anni, prima l’Under 21, poi la Nazionale, tanti momenti belli, grandi soddisfazioni e sempre con il piacere di seguire una persona educata, piena di valori e principi che oggi purtroppo restano troppo spesso nascosti. Per noi  era come un padre: considerava prima l’uomo e poi il calciatore. Con lui si andava a lezione di vita. Aveva una dolcezza innata e anche quando doveva alzare la voce sapeva farlo con garbo». La gente l’aveva capito: «Quando una persona si comporta con sincerità e genuinità, viene ripagato con rispetto e affetto».
IDEE E GIOCO E poi, oltre a essere un uomo di spessore, Azeglio  ha saputo far giocare bene l’Under 21 e la Nazionale: «È stato un allenatore molto bravo conclude l’allenatore del Bologna -, sapeva trasmetterci le sue idee nel modo più semplice e diretto. Non aveva bisogno di scimmiottare nessuno: era semplicemente se stesso».
G. B. Oliviero

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La Stampa, Gigi Garanzini
Non è stato un padre della patria come Enzo Bearzot: ne è stato uno zio. Vittima della non sottile differenza che passa nella storia, negli albi d’oro, nell’immaginario collettivo tra chi ha vinto e chi no. Azeglio  il suo Mondiale non riuscì a vincerlo. Anche se per la verità nemmeno lo perse, perché quell’Italia del ’90 finì imbattuta come quella spagnola dell’82. Gli fu fatale una strana serata napoletana che pure era incominciata in discesa, con l’ormai solito gol di Totò Schillaci. Poi, in quell’atmosfera surreale in cui più o meno metà stadio, comunque la parte più chiassosa, tifava Maradona, vennero prima le occasioni fallite dagli azzurri per chiudere la sfida, poi l’uscita a vuoto di Zenga sull’unica, vera occasione dell’Argentina, e infine gli errori dal dischetto di Donadoni e Serena. Sono passati 27 anni e fischia. Più che sufficienti a farsene una ragione: mai abbastanza pe’ fa passà ’a nuttata, perché don Azeglio tra le altre cose amava la grande canzone napoletana e proprio lì, tra Pusilleco e Marechiaro, gli toccò dire addio al sogno di una carriera. Giocava un bel calcio, la sua Italia. L’aveva costruita in proprio sin dall’Under 21, pescando il meglio tra i non pochi talenti di quella generazione e destreggiandosi tra qualche doppione. Gli mancava un vero leader, dalla cintola in su: e in compenso c’era forse qualche galletto di troppo nel pollaio. Ma quando ancora oggi si parla di grande occasione mancata, di notti magiche tradite, non si tien conto di un parametro che ha accompagnato l’evoluzione del calcio: il peso del fattore campo. Che un tempo lo era in positivo per ragioni innanzitutto arbitrali, vedi il Mondiale azzurro del ’34: ma da un bel po’ a questa parte lo è diventato in negativo, sotto forma di pressione sempre meno sostenibile. Dopo il ’90 solo la Francia del ’98 ha vinto un Mondiale casalingo da co-favorita: non la Germania del 2006, battuta in semifinale dall’Italia, tantomeno il Brasile 2014, stritolato sempre in semifinale dai tedeschi.
Zio Azeglio veniva dalla cantera azzurra, come prima di lui Valcareggi e Bearzot e più tardi, in un certo senso, Maldini. Gente per cui la Nazionale era innanzitutto un onore, non ancora un ripiego come poi sarebbe accaduto. Così, quando il pro-zio Ferruccio gli propose di entrare nell’Under 23, parliamo del ’75, fu la tuta con su scritto Italia il richiamo della foresta, non certo i quattrini che erano pochi per davvero. Anche se sempre più delle 15 mila lire al mese con cui aveva debuttato da calciatore a Cesenatico, rampa di lancio di una lunga e onesta carriera da mediano consumata tra Vicenza, Sampdoria e Brescia. Era nato a Cesena, ultimo di sette figli. Si innamorò perdutamente del Grande Torino un giorno del ’47 che lo vide giocare a Bologna, e da quel momento fu capitan Valentino il suo idolo assoluto.
La panchina azzurra la perse l’anno dopo il Mondiale. In teoria per un palo di Rizzitelli a Mosca che costò la qualificazione agli Europei: in pratica perché da mesi Berlusconi si lavorava Matarrese per traslocare Sacchi dalla panchina del Milan a quella dell’Italia. Ne seguì una sorta di faida tutta romagnola, perché  buttò là che Sacchi con quel Milan aveva vinto troppo poco: e il povero Rizzitelli che si sbagliò a dedicare a  un gol segnato nella Nazionale di Sacchi diede così l’addio alla maglia azzurra. Col tempo arrivò poi il risarcimento federale, prima con la presidenza dell’Associazione allenatori, poi del Settore tecnico di Coverciano. Ruoli di rappresentanza: che zio-Azeglio prese molto sul serio, perché anche questo era il bello degli uomini della sua generazione. Oggi il calcio italiano abbruna per lui la sua bandiera. O quel che ne rimane.
Gigi Garanzini

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Libero, Andrea Saronni
Quando se ne va una persona popolare, riconoscibile, qualcuno di cui ti è fregato qualcosa, è riflesso condizionato rivedersi passare davanti agli occhi le immagini, la pellicola della mente in cui è rimasto impresso. 
Va via Azeglio  e per un attimo rivivi quell’atmosfera da festa continua e annunciata, il film in quadricromia con l’azzurro delle maglie e il bianco, rosso, verde di migliaia di bandiere, il film che però ti spiazza in un secondo con il finale che non ti aspetti, e che ti lascia là, sospeso, come se prima o poi la trama riprendesse per il verso giusto. Ma di sorprendente, però, c’è anche il sentimento comune che il tempo ha costruito intorno a quell’uomo, a quella squadra e a quella sconfitta bruciante: il mancato trionfo del Mondiale italiano, quel coitus interruptus delle notti magiche del 1990 si è ammantato comunque di dolcezza, ha un sapore diventato buono, e non è solo il mero effetto della nostalgia. 
È il ricordo che rimane di un’Italia giovane, bellissima, piena di voglia e della sua guida che anche lombrosianamente aveva davvero il volto, la parola, i modi del padre paziente, non privo di severità all’occorrenza, ma sempre molto più dedito alla carezza che alla sberla. «Arriva un brivido, e dagli spogliatoi-escono i ragazzi, e siamo noi» cantavamo con la Nannini, e dietro a quei giocatori in cui non era difficile identificarsi senza ridicole distinzioni di campanile c’era questo signore di mezza età, pacato, corredato di quel sano accento romagnolo mai perduto nonostante una vita divisa tra Genova, Vicenza, Brescia (dove ha poi stabilito la sua casa) e soprattutto Coverciano, dove si chiuse con gioia a 35 anni assumendosi la responsabilità, via via andata crescendo, di fare l’allenatore federale, una figura estintasi insieme a lui, e ai suoi epigoni Enzo Bearzot, Cesare Maldini, e ora che le cose vanno a rotoli e che la Nazionale, oltre a tanti piedi buoni, ha perso anche l’anima viene da chiedersi il perché, di questa estinzione. 
Per anni, ha avuto l’imbarazzo della scelta e ha scremato il meglio nelle Under e poi ha passato a Bearzot. E quando si è trattato di prenderne il posto e continuarne il lavoro, qual è stata la differenza col predecessore, giustamente considerato un padre della Patria calcistica? Due sconfitte ai rigori, la maledetta Argentina e ancora quella con la Spagna nella finale Under 21 di quattro anni prima, quando esattamente come Bearzot nel 1978  mise le fondamenta per il grande traguardo. E anche quando il sipario è calato, in mezzo c’è stato un palo, quello di Rizzitelli a Mosca. Ma lì, forse, tutto era già deciso, ma proprio il Vate Sacchi, colui che lo ha sostituito, una figura tecnica e umana agli opposti, ricordava nello stesso dialetto di  che per vincere ci vogliono «occhio, pazienza e bus del cul», quello che Daddy Azeglio non ha davvero avuto. Ma proprio ora che se ne va, ci accorgiamo che non importa, non importa più, e che solo ricordandolo sono venute alla mente cose bellissime. Da albo d’oro nella vita di un mucchio di gente. 
Andrea Saronni

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Libero, Alessandro Dall’Orto


Azeglio  racconta Azeglio. Riflessioni, aneddoti, commenti e rivelazioni prese dall’intervista-ritratto rilasciata dall’ex ct a Libero il 28 marzo 2010. 

Gli oriundi:: «Ne farei a meno: che senso ha scegliere l’Italia a 30 anni dopo aver aspettato una vita la convocazione con Brasile o Argentina? La maglia azzurra non può essere un ripiego». 
Il calcio di oggi: «È più evoluto, più fisico: ora corrono tutti, ai miei tempi solo i centrocampisti. Ma oggi il football è anche un po’meno tecnico». 
Da giocatore: «Il mio idolo era Valentino Mazzola, calciatore universale. Io sono nato mezzala. Tecnico e generoso, mi mancavano un pizzico di scatto e il tiro: ogni conclusione finiva sempre addosso al portiere». 
La nazionale da vice: «Per cinque Mondiali ho fatto il secondo: Messico 
’70, Germania, Argentina, Spagna e Messico ’86. E nel frattempo ho allenato l’Under 23 e l’Under 21. Messico ’70 lo ricordo con grande adrenalina: avventura fantastica, affascinante». 
Convocazioni di Italia ’90: «Schillaci? Nessuna sorpresa! Mai avuto l’idea di escluderlo nemmeno per un momento. Piuttosto ero in dubbio su Fusi. Per tenerlo avrei dovrei lasciare a casa una punta: l’ho chiamato mentre era sulla nave a festeggiare lo scudetto del Napoli. Ma ha capito». 
Zenga il leader: 
«Grande personalità, un trascinatore. Uno dei leader, galvanizzava tutta la squadra nel sottopassaggio. L’uscita su Caniggia? Prima rete presa dopo 5 gare! Tutti ricordano quell’errore, ma a decidere l’eliminazione sono stati gli sbagli di Donadoni e Serena dal dischetto».
Serena e il rigore: «Ha detto che 
non si aspettava di dover tirare e che non era pronto mentalmente? Giannini e Vialli erano usciti, Ferri era infortu
nato, Totò non stava bene. Cosa pensava, che lo tirassi io?». 
L’arbitro Vautrot: «Ci ha penalizzati. Su 12-13 decisioni dubbie ne ha fischiate solo 3-4 per noi. E c’è anche un episodio decisivo che non tutti ricordano: sull’1-0 Giusti, già ammonito, tocca il pallone di mano. L’arbitro mette la mano in tasca e sta per estrarre il cartellino. Poi si accorge che dovrebbe espellerlo e ci ripensa. D’altronde al momento della designazione avevamo ricevuto una strana telefonata, ci avevano messi in guardia: “Ha già combinato guai contro 
un’italiana in Coppa. Attenzione”».
Alessandro Dall’Orto