Libero, 31 gennaio 2018
E la cultura italiana si scorda di Mario Pannunzio
Spiace dirlo, ma lo Stato italiano ha completamente dimenticato Mario Pannunzio, il giornalista e scrittore nato a Lucca nel 1910 e scomparso esattamente cinquant’anni fa il dieci di febbraio a Roma.
Anzi, si può dire che lo abbia volutamente cancellato dalle sue memorie storiche. Mario Pannunzio infatti non è una personalità giornalistica e letteraria che possa essere trascurata, se soltanto si volesse ricordare la magnifica società letteraria ch’egli creò e animò quand’era direttore della rivista Il mondo dal 1949 al 1966. Quei redattori e collaboratori, in anni pieni di speranze per la ricostruzione del nostro Paese dopo la catastrofe della guerra, si chiamavano Vittorio Gorresio e Ennio Flaiano,Corrado Alvaro e Vitaliano Brancati,Carlo Laurenzi e Alberto Moravia, Leonardo Sciascia e Italo Calvino,Marco Pannella e Giovanni Spadolini, Eugenio Scalfari e Tommaso Landolfi, Indro Montanelli e Luigi Einaudi, Thomas Mann e George Orwell. Su tutti splendeva il nume tutelare di Benedetto Croce e di Gaetano Salvemini. Poiché Pannunzio, diformazione storicista, fu amicissimo del filosofo napoletano e con lui militò nelle file del risorto partito liberale durante la guerra: ma benché il Centro con sede a Torino intitolato allo scrittore e giornalista lucchese abbia ristampato nel 1998 in memoria di questa amicizia il saggio più famoso del pensatore partenopeo e cioè Perché non possiamo non dirci cristiani, mai sorte fu più ingrata di quella toccata, proprio a Napoli, al direttore de Il mondo. Non soltanto, infatti, non v’è libreria che possegga almeno un libro di questo formidabile agitatore culturale ma perfino la più importante biblioteca cittadina,la statale Vittorio Emanuele III ignora del tutto il suo nome, non fosse per una prefazione a un libro di Vittorio de Caprariis.
E dire che gli esperti bibliofili napoletani non hanno scusanti, poiché nel 2011 la casa editrice Aragno ha pubblicato per la prima volta l’opera fortunosamente ritrovata fra le carte dell’autore, pregevole ricostruzione della vita del ceto impiegatizio in epoca fascista.