Il Messaggero, 31 gennaio 2018
De Mita: non siamo riusciti a governare la democrazia
Verrebbe da definire Ciriaco De Mita, che dopodomani compie gli anni, uno splendido novantenne. Se non fosse che questa è una semplificazione e come tutte le semplificazioni contrasta con lo stile del personaggio. Il quale dal 900 è passato al secolo successivo, senza mai trasgredire alla sua impostazione di fondo: «Quando una cosa complessa ti appare semplice, vuol dire che non l’hai capita». E siamo al demitismo puro. Forse per questo Gianni Agnelli definì l’ex premier e leader dc «un intellettuale della Magna Grecia». Lui, che comunque si sarebbe riappacificato con l’Avvocato in occasione di una partita della Juve contro l’Avellino, rispose per le rime, dicendo che Agnelli s’intendeva di mercanti, e non di cultura. Per intellettuale della Magna Grecia, si voleva intendere uno che pensa ma non agisce. Il che non corrisponde in verità – e al netto dei suoi meriti e demeriti – alla figura di De Mita. Il quale è sempre stato convinto, invece, che i sistemi politici si reggano sul pensiero e che l’azione non si esaurisca nella sua realizzazione.
IL CAMBIAMENTO
Oggi la realtà politica, a uno come lui, non può certo apparire governata dal pensiero. Basti pensare alla vicenda della formazione delle liste. «Si è adottata una logica feudale», ragiona De Mita: «Nella quale la fedeltà al capo è stata il criterio dominante. Ma la fedeltà finisce e diventa tradimento, quando il capo politico comincia a sbagliare». De Mita è sempre stato un fiero avversario della democrazia dell’uomo solo, e la riprova sta nella sua opposizione referendaria, il 4 dicembre 2016, alla riforma costituzionale.
Era meglio la politica di una volta? Impressiona nel De Mita di questi ultimi anni, ma del resto il suo approccio storico crociano la renderebbe impossibile, l’assenza di nostalgia. E la continua tensione all’idea di sviluppo. Alla fine degli anni 80, c’era chi gli diceva: «Tu sei un insieme di modernità e di arcaicità. Quando le due cose sono insieme dai il meglio di te stesso, altrimenti, no». E in effetti, il coraggio dell’innovazione (in materia di riforme istituzionali e di rapporto con il Pci, per esempio, mentre con Craxi come si sa il rapporto fu di forte contrasto) e i modi e le abitudini da leader del suo territorio, di tipo notabilare, formano quello che appare un paradosso agli occhi dei più, ma non a quelli di De Mita. «Io ho avuto sempre una visione di sviluppo. E l’Irpinia, negli anni 80, raggiunse lo stesso tasso di sviluppo di certe parti del Nord d’Italia».
Da allora, di anni ne sono passati tanti altri. Ancora di più ne sono trascorsi dal 68. Ma guardando indietro, che per De Mita è un modo per guardare anche avanti, lui in questa fase ama anche riflettere su che cosa ha significato la stagione della contestazione. E pensa che il diritto va garantito ma il diritto garantito presuppone anche la responsabilità. Ossia che il diritto allo studio va bene, ma dev’esserci anche il diritto alla bocciatura.
Un partito responsabile per eccellenza, insieme alla Dc, è stato, nei momenti migliori il Pci. E Ciriaco, che è stato il primo ad aprire la riflessione sull’evoluzione dei comunisti, nel congresso del 69 in cui Berlinguer divenne vicesegretario fu colpito sentendo che citava Machiavelli, a proposito dello Stato, mentre Terracini ancora si attardava su Lenin. A quel tempo De Mita era sottosegretario, s’occupava della riforma delle regioni e volle incontrare Berlinguer. Si videro in una bettola di Roma, e Aniello Coppola, famoso giornalista comunista napoletano, alla fine disse a Ciriaco: «Lo hai riempito di complimenti». E del resto tutto si può dire a De Mita, tranne che la Dc sia stato un partito reazionario. Questa immagine erronea lui la attribuisce a certi intellettuali di sinistra. Ma non c’è dubbio che, specie nel Mezzogiorno, sia esistito un elettorato reazionario che votava Dc. «Oggi penso che quel tipo di elettorato guardi a Berlusconi. Ma come contestazione, non come soluzione. Se vogliamo semplificare, si può dire che la crisi della stagione renziana abbia fatto riemergere ciò che c’era prima». Ma a De Mita interessa quella politica che si sforza di capire la realtà e di guidarla. In giro di questa politica non ne vede. E per ritrovarne le tracce, deve risalire, per esempio, ad Amendola e a Ingrao. «All’inizio non ci salutavamo con Amendola. Io volevo, ma lui no, perché ero amico di Ingrao. Quando Leone venne eletto presidente della Repubblica, tutto il gruppo parlamentare comunista non si alzò ad applaudire. A parte Amendola. Apprezzai molto quel suo comportamento. E uscendo dall’aula, Amendola per la prima volta mi rivolse la parola. Dicendo: prima eravamo in due a gestire le operazioni parlamentari del nostro partito, Togliatti e io, ma ora Togliatti è morto. Ossia mi stava dicendo: dovete parlare con me».
LA DEMOCRAZIA
E ci risiamo. Il tema vero che sta al centro della riflessioni dell’uomo politico arrivato a 90 anni è quello del processo democratico. «Io credo che, nella forma in cui l’abbiamo vista finora, la democrazia rappresentativa sia arrivata alla fine. Io ho sempre pensato che la democrazia fosse un continuo processo di sviluppo e non una stagione. E invece ho dovuto ricredermi. La democrazia è un fatto e noi non siamo riusciti a governarlo».