Il Messaggero, 1 febbraio 2018
La vera posta in gioco è il controllo dei mercati
Non si sbaglia di troppo a pensare un po’ male sulla vera origine dell’ennesima coda dello scandalo diesel che va avanti da due anni e mezzo, quella relativa agli esperimenti di inalazione di gas di scarico da parte di esseri umani in Germania. Senza voler alimentare teorie complottiste, molti indizi potrebbero avvalorare l’ipotesi dell’ennesimo scambio di colpi che Washington e Berlino si riservano da quando Donald Trump è stato eletto.
Con la differenza che lo scandalo delle emissioni truccate da parte delle case automobilistiche tedesche nasce nel 2015 negli States per ragioni industriali e di mercato, mentre dall’avvento di Trump alla Casa Bianca i dossier e gli episodi di scontro si sono moltiplicati, estendendosi alle politiche ambientali, al ruolo della Nato, ai rapporti con i Paesi europei dell’Est e alla Cina. In sintesi, il rapporto tedesco-americano è fortemente stressato, molto più di quanto non avvenga con Macron e le altre grandi capitali europee. Ma all’Europa in quanto tale questo scontro non giova di certo, visto che la Germania è il Paese leader del continente.
Lo scandalo diesel l’aggiramento dei controlli sulle reali emissioni delle auto, adottando device elettronici volti a contenerle automaticamente alle prove su banco e strada, con l’accusa di aver truccato oltre 13 milioni di motori tra Usa ed Europa nacque negli Stati Uniti per una triplice ragione.
Il mercato americano dell’auto da sempre ha quote bassissime di motorizzazione diesel, a differenza di quello europeo in cui in molti Paesi come l’Italia supera nettamente il 50%. La seconda ragione è che non a caso i controlli e i tetti di emissione Usa sono molto più severi sugli ossidi di azoto, tipici residui della combustione diesel, a differenza di quelli europei più stretti sulla CO2. La terza ragione è quella di sostanza: la botta tirata a Bmw, Daimler e Volkswagen-Audi ha messo a bersaglio pesanti siluri su concorrenti sgraditi a Ford, Gm e Fca, sia sul mercato interno americano sia su quello asiatico e cinese.
Il conto americano per le case tedesche è stato salato, 25 miliardi di dollari tra sanzioni e sostituzioni ai clienti. Ma la Germania ha reagito fieramente. La sola Vw ha mobilitato 20 miliardi di investimenti per accelerare l’avvento dell’auto elettrica, più altri 14 per la ricerca e sviluppo di tecnologie per auto a guida autonoma. Sommando l’accelerazione degli analoghi programmi di Bmw e Daimler, si arriva a 50 miliardi. Col risultato che sono stati Ford e GM, a dover inseguire i tedeschi nel potenziamento di investimenti e propulsioni elettriche e ibride. Ma la guerra non è finita, ed ecco perché improvvisamente dalla notizia degli esperimenti su scimmie nel New Mexico esplode lo scandalo degli esperimenti volontari umani da parte dei tre giganti tedeschi dell’auto. Esperimenti che la Merkel ha condannato con parole dure, anche perché a saltare in Volkswagen è stato il manager che si occupava delle attività di lobby del gruppo, Thomas Steg, che in precedenza però proprio della Merkel era stato collaboratore.
L’ATTACCO
Con Trump alla Casa Bianca lo scontro è dunque diventato politico. Nel primo tour della Merkel a Washington per incontrare a marzo 2017 il nuovo presidente, Trump non le stinge la mano e le riserva grande freddezza. A maggio, la Merkel attacca duramente l’Amministrazione Usa per la decisione di recedere dalla Cop21 e dagli obiettivi comuni di contenimento dei gas serra per rallentare i cambiamenti climatici. A giugno, i rapporti peggiorano ulteriormente, Trump attacca duramente la Germania accusandola di avere un surplus commerciale con gli Usa troppo elevato, proprio mentre – aggiunge – è il primo grande Paese europeo a non rispettare la regola di impegnare il 2% del proprio Pil nella difesa, ergo la Nato resta soprattutto a carico degli Stati Uniti per difendere gli europei.
Dopodiché Trump però spiazza tutti sposando integralmente i timori dei governi nazionalisti est europei rivolti alla Russia di Putin, e potenzia direttamente la presenza militare americana a loro sostegno in cielo, terra e mare, fino a realizzare un tour europeo che culmina a luglio in una trionfale accoglienza in Polonia. Berlino si trova così spodestata del suo ruolo tradizionale di tessitrice e garante della politica di sicurezza nell’Est Europa dove ha potentemente investito e delocalizzato.
Infine la Cina. Da una parte, ritirando gli Usa dal Tpp, il trattato multilaterale commerciale dell’area del Pacifico, Trump ha in realtà più fatto un favore che uno sgarbo a Pechino, che dal Trattato era esclusa e lo temeva come una rete costruita da Obama dei maggiori Paesi filo americani nel Pacifico. Dall’altra, pur continuando a ripetere che il deficit commerciale di 500 miliardi di dollari degli Usa verso la Cina deve rientrare a qualunque costo, quando Trump è andato a Pechino a novembre vi ha firmato accordi per oltre 50 miliardi di dollari. Un colpo per la Germania, che della Cina è il primo partner commerciale con un interscambio che ha superato quota 180 miliardi nel 2017.
I CRITERI DELLA UE
Ecco le premesse che spiegano perché, la settimana scorsa a Davos, la Merkel ha sbagliato a farsi prendere dal nervosismo, con un attacco preventivo a Trump accusato «di non aver capito la lezione della storia sul protezionismo». Restando seccamente spiazzata quando, l’indomani, Trump tra gli applausi si è limitato a dire che la sua battaglia è contro il commercio predatorio, di chi ruba su vasta scala proprietà intellettuale, agevola le proprie imprese con prezzi amministrati o con credito di Stato. Sono gli stessi criteri con cui la Ue adotta i propri dazi antidumping.
È un problema per la Germania anche il massiccio reimpatrio di flussi finanziari e utili parcheggiato in Europa da parte delle multinazionali e grandi banche Usa, a seguito della riforma fiscale che oggettivamente rappresenta sin qui la più grande vittoria di Trump sul fronte interno, e che sosterrà massicci investimenti e occupazione grazie al taglio di ben 14 punti dell’aliquota sui redditi dimpresa, scesa dal 35% al 21%.
Sin qui, Macron ha scelto una strada personale di dialogo con Trump, invitandolo trionfalmente il 14 luglio scorso a Parigi. È il resto dell’Europa a cominciare da noi, che dovrebbe interrogarsi sul problema che il cattivo rapporto tra Merkel e Trump proietta sull’intera Europa. È davvero una linea condivisa? Per quali obiettivi comuni? Ci indebolisce o ci rafforza al tavolo del commercio mondiale, degli approvvigionamenti energetici dalla Russia, della sicurezza ai nostri confini orientali europei con la Russia?
Il dieselgate è anche tutto questo. Ora la politica italiana è presa dalla campagna elettorale. Ma al più presto bisogna porsi queste domande, perché incidono direttamente sulla riforma della governance europea.