La Stampa, 1 febbraio 2018
Noio volevàn savoir
Nel 2012 il Politecnico di Milano aveva istituito dei corsi solo in inglese e, con la notoria agilità della burocrazia, martedì il Consiglio di Stato ha stabilito che non si può. Ne va del «primato della lingua italiana», hanno detto i giudici accogliendo il ricorso di un centinaio di docenti transitato anche da Tar e Corte Costituzionale. Dunque i corsi in inglese dovranno essere affiancati da identici corsi in italiano, altrimenti la nostra lingua si «marginalizza». Strano, eravamo convinti fosse già marginale, visto che fuori dall’Italia nessuno usa l’italiano e che ricercatori, economisti, medici, finanzieri, storici dell’arte, archeologi, giuristi eccetera già pubblicano nell’unica lingua in grado di attraversare i continenti: l’inglese. Poi uno può difendere il «primato della lingua italiana», in fondo c’è anche chi difende il primato della razza, e pure chi difende il primato del grammofono in quanto a purezza del suono ma, grazie al cielo, non c’è una legge che imponga a chi scarica musica online di procurarsi l’equipollente vinile 78 giri. Il Politecnico voleva soltanto organizzare corsi desiderabili per studenti stranieri, e per studenti italiani immersi nel mondo che, ahivoi, è cambiato: le lingue, come i popoli, le tecnologie o le persone, nascono e muoiono o semplicemente si modificano. Per fortuna i nostri ragazzi non hanno confini geografici e mentali, vanno a lavorare e a studiare a Londra e a New York, vedono le serie senza sottotitoli e si scrivono a fusi orari di distanza, nell’ovvio primato della lingua che si parla.