la Repubblica, 1 febbraio 2018
A ognuno il suo coltello
Com’è fatto un coltello da chef? La domanda è semplice, e chiunque di noi è sicuro di conoscere la risposta: come quello che ho nel cassetto. E in effetti è questa l’unica risposta giusta: dipende dal cassetto, cioè dalla nostra casa e, quindi, dal paese in cui si trova. Perché il coltello da chef è un genere non un modello, cambia a seconda di dove ci troviamo. In Giappone prende la forma dello yanagi, stretta e affusolata, con una lama che sembra un rasoio; in Cina quella di un tou, ampio e pesante come una mannaia; in Europa, beh, lo sappiamo, è proprio quello che possediamo, con la lama che si allarga in prossimità del manico. La ragione è molto semplice, è la soluzione tecnica che si è dimostrata migliore per le trasformazioni ritenute pertinenti in ciascuna di quelle gastronomie. È in questo che consiste a ben pensare la cucina: trasformazione, e come tale non nasce con la cottura, ma con la divisione, il discernimento, la separazione, insomma con il taglio. È normale allora che ogni cultura culinaria si costituisca intorno a delle materie e a delle trasformazioni preferite. Lo yanagi è fatto per fare sushi e sashimi, e dunque per il pesce, il tou per ridurre in piccoli pezzi ogni genere di ortaggio (in entrambi i casi il coltello compie le sue azioni cruente in cucina, in tavola ci sono solo le miti bacchette) e il nostro per la carne. Non che non ci si possa fare altro naturalmente, ma ogni coltello ha senza dubbio la sua funzione preferita e questa è legata alla cultura dalla quale proviene. Nel nostro caso quella nord europea, francese e tedesca in particolare, luoghi in cui, appunto, si mangiava molta carne. Ecco perché scegliere un coltello non è solo una questione che riguardi quanto sia affilato, ma il tipo di taglio che produce e la materia su cui è previsto che lo faccia. Tornare a casa con il coltello giusto non fa solo venir voglia di cucinare, cambia il modo in cui lo facciamo. Non è un caso che i grandi chef vadano in giro con i propri coltelli come i chitarristi fanno con la propria chitarra: senza di essa non smettono di saper suonare, semplicemente non suonano allo stesso modo. Quando compriamo un coltello allora è questo che dobbiamo chiederci: che cuoco voglio essere oggi?
Dario Mangano
Evoluzione dell’arrotino
L’ arrotino vero non va in giro con il megafono, non aggiusta cucine a gas e ombrelli, ma si presenta professionalmente al cliente con il proprio biglietto da visita. Ci siamo evoluti». Già archiviato tra i mestieri antichi destinati a estinzione, l’arrotino esiste ancora e lo ribadisce sulla pagina Facebook dell’associazione Arrotini e Coltellerie. Resiste per la capacità di forgiarsi ai tempi. Nelle botteghe o in furgoni attrezzati, di fronte alla richiesta di affilare e levigare coltelli per sushi o di ceramica e dischi da kebab, studia materiali, forme e usi nuovi per adattare i trattamenti. In Italia oggi questa professione è esercitata da 482 persone, registra Unioncamere/Infocamere.
«Se una volta il sapere si tramandava di padre in figlio, ora si condivide sui social. Siamo arrotini 3.0», spiega Leonardo Donnini, figlio d’arte. Il padre, entrato come ragazzo di bottega nel 1957 nella coltelleria Galli di Firenze, subentrò al titolare nel 1978. «Usiamo mani e sensibilità, siamo artigiani e appassionati», dice Enrico Finessi, ex operaio che ha rilevato un’attività a Gattinara. Emilio Teoharov invece, tre generazioni di arrotini alle spalle, è cresciuto in bottega. Il nonno era partito dalla Val di Resia spostandosi di paese in paese lungo l’ex Jugoslavia, fino a fermarsi a Skopje. Ha avuto sei figli, tre maschi che hanno fatto gli arrotini e tre femmine che hanno sposato arrotini. «Questo mestiere è denigrato – si rammarica al telefono da Pordenone – e invece richiede grande preparazione».
Tutti e tre fanno parte dell’associazione Arrotini e Coltellerie. Nata vent’anni fa, raccoglie una settantina di soci dai 22 agli 83 anni, tra cui una donna, sparsi da Treviso a Barletta, da Montepulciano a Bergamo. «Quando qualcuno ha un dubbio su uno strumento nuovo chiede consiglio agli altri su un gruppo Facebook chiuso». Sul social discutono di paste abrasive e taglienti da ravvivare, per tenersi aggiornati in un mercato in cui lame giapponesi si ibridano con quelle occidentali, tornano i rasoi a mano libera, abbondano strumenti di podologi e, in periodo di sfilate, trincetti per i pellami.
Hanno creato un sistema di certificazione che prevede esami per diventare “abile affilatore” di coltelli, forbici o strumenti di estetica e, a seguire, “mastro arrotino”.
«Un modo per arginare chi s’improvvisa», spiegano. Nella formazione, piuttosto, ravvisano un’altra lacuna. I cuochi sono inseparabili dai loro coltelli, ma «nelle scuole di cucina uso e cura dei taglienti non sono materia di insegnamento – dice Donnini –. Eppure da forma e mantenimento dipendono tecnica e velocità di taglio».
Cinzia Lucchelli