la Repubblica, 1 febbraio 2018
Fatica e glamour vita tragicomica di una gastronoma
Tutti la invidiano perché frequenta chef e locali gourmet. Dietro il mestiere incubo dieta e domande impertinenti D evo guadagnarmi il caviale quotidiano”. Dico sempre così, autoironicamente, a chi mi chiede come sia fare il mio mestiere, la gastronoma. Del resto, qualcuno dovrà pur farlo. Qualcuno deve provare ristoranti, conoscere gli chef, cercare produttori, nuove cucine e innovativi progetti sul cibo. E scriverne. Altrimenti come fareste a essere così preparati e curiosi sull’argomento cibo, oggi che ti dà più legittimazione culturale sapere quale sia il nuovo piatto di Bottura o dove comprare il pane a Londra, dell’aver letto l’ultimo libro di Franzen?
Non pensiate però che la vita del gastronomo sia facile e invidiabile solo perché passo la maggior parte delle serate a cena in ristoranti blasonati, o a eventi dove degusto ottimo cibo e bevo vini molto costosi, assaggio la cucina dei migliori chef del mondo con i quali ci scambiamo amichevoli pacche sulle spalle, servita da personale smanioso di spargermi addosso efficienza e cortesia. C’è dell’altro. Il mio è un duro lavoro. In pratica, bisogna sottoporsi al numero maggiore di esperienze gastronomiche, in modo da allargare il proprio spettro sensoriale, confrontare, studiare, osare... Incontrare chef, produttori, camerieri, lavapiatti, imprenditori della ristorazione, pizzaioli, amministratori di grandi aziende, allevatori di maiali o di lumache, contadini, pescatori e raccoglitori di erbe spontanee. La quale cosa, si traduce di fatto, in migliaia di chilometri in giro per il mondo, quintali di cibo ingerito, ore insonni trascorse a fine servizio con gli chef e nelle cucine dei ristoranti, corsi di cucina di ogni tipo, una quantità non stimabile di alcolici consumata, pratica incessante e smania di conoscere. Devo allenare il mio palato ad assaggiare qualsiasi cosa e il mio stomaco a digerirla in fretta, per passare con disinvoltura al pasto successivo ( vorrei dire ad Antonio Albanese che io ho inghiottito cose ben più improbabili delle Lenticchie alla julienne di Alain Tonnè, protagonista del suo ultimo libro: insetti, interiora, temibili birre artigianali, fermentazioni malriuscite).
Spesso al ristorante non posso mangiare ciò che voglio, ma devo sempre ordinare la cosa più strana, quella che suona interessante, perché probabilmente ne farò una storia migliore. Se c’è una terrina di orecchio di maiale sul menu, io ordino quella. Anche se le mie viscere, il mio medico, la mia bilancia, mi suggeriscono di optare per un piatto di spaghetti al pomodoro. A proposito, ma quanto è difficile trovare un buon piatto di spaghetti al pomodoro?
La cosa bella è che fino a qualche anno fa, chi scriveva di cibo, era stereotipizzato come: maschio bianco, sovrappeso, con alti tassi di colesterolo, avido, benestante, esigente, noioso, di mezz’età. Oggi il cibo si è democratizzato: prima dovevi scrivere di alta cucina, ora puoi scrivere anche di pizza, vongole, guacamole e barbecue. La vera svolta è che oggi puoi fare il food writer anche se sei normopeso, nel lato giusto dei 40, e sei una donna. Come me. Scrivere di cibo comporta oggettivamente certi vantaggi ( e non mi riferisco solo al mangiare gratis o essere pagata per mangiare, cosa che effettivamente succede) e dunque la maggior parte delle persone ha fantasie glamour circa la vita di uno scrittore di cibo ma genera anche qualche seccatura: invitereste a cena una donna che ha già provato tutti i ristoranti della città? Cucinereste per lei dopo che lo hanno fatto i migliori chef del mondo? Per gli amici sei un database aggiornato consultabile 24 ore su 24: “Mi consigli un sushi a Riga?”, “Dove faccio colazione a Usmate Velate?”.
Nonostante tutto, scrivere di cibo è oggi in effetti molto fico. Per esempio, è un mestiere che ogni altro tipo di giornalista segretamente desidera fare. A differenza dei miei colleghi, infatti, io ho in mano le argomentazioni per condurre le conversazioni più brillanti. Del resto, in ogni circolo di intellettuali oggi si dibatte della difficoltà di trovare un tavolo nei migliori ristoranti ( per voi altri forse, non per me) e per certi aspetti il cibo ha sostituito l’arte e ha assunto le caratteristiche sociologiche della cultura (è importante conoscere Mozart o Leonardo, ma è anche meglio essere in grado di discutere di kombucha o di micologia); il cibo è un’occasione immancabile di snobismo (il mio mercato dei prodotti del contadino è più grande, migliore, più fresco del tuo!), e oggi assorbe le energie e le risorse dell’élite culturale. A noi gastronomi non resta che attenersi alla regola fondamentale: non prenderci mai troppo sul serio, altrimenti basta un attimo per scivolare alla deriva a discutere del nesso tra gli asparagi e l’immortalità dell’anima.