la Repubblica, 1 febbraio 2018
Io, un agente segreto in 240 ristoranti l’anno
Se la Guida Michelin, detta la Rossa, ha l’aura sacrale di una chiesa, gli ispettori sono i suoi sacerdoti: coperti dall’anonimato, si aggirano per l’Europa in incognito. Si sa che sono novanta e su di loro s’è sedimentata una ricca mitologia raccontata in più di un film. Quello che ha accettato di raccontarsi a RFood non è un ispettore come tanti: è uno dei più autorevoli d’Europa, che ben conosce il nostro Paese. Ed è – sovvertendo l’iconografia da Anton Egò, il funereo critico del cartoon Ratatouille – una donna: quarantacinque anni, tedesca, poliglotta, in splendida forma. Parla, ma senza svelarsi.
Nell’iconografia italiana il critico gastronomico è un maschio, sessantenne e in carne. È vero?
«È un’immagine datata. Non è così nel resto del mondo e neanche in Italia. Non è come essere un pilota di Formula 1, che per me è un lavoro maschile: in alcuni Paesi abbiamo più ispettori donne che uomini. E anche se non era così quando ho iniziato, non sono mai stata trattata come un’aliena».
Ci dica dei suoi inizi. Come ha cominciato a fare questo lavoro?
«È stato naturale dopo dieci anni nell’ambito del catering, un mondo in cui le valutazioni Michelin sono molto considerate. Ero curiosa di sapere se le mie competenze mi avrebbero permesso di lavorare come ispettore. Quindi ho fatto domanda e sono stata chiamata per incontrare il direttore. Siamo andati a pranzo e, oltre alla concentrazione richiesta dal colloquio, dovevo focalizzarmi sui piatti, perché mi era stata chiesta una relazione su quel pasto. Alla fine sono stata assunta».
Oggi quanti locali visita in un anno?
«Mangio in circa 240 ristoranti l’anno, più o meno. Faccio 30mila chilometri in auto, senza considerare i voli».
Crede che nelle grandi cucine del mondo ci sia una sua foto per permettere al personale di riconoscerla?
«Non penso, ma anche se fosse non cambierebbe nulla: se un critico gastronomico viene riconosciuto al suo arrivo non c’è molto che lo staff possa fare. I prodotti ci sono, le salse sono pronte, l’impiattamento non cambia. Uno chef non riesce a cucinare da stella solo perché sa che è presente un ispettore Michelin, se non ha talento e prodotti. Comunque, se ho la percezione di aver avuto un trattamento di favore – un piatto in più, per esempio –, informo il mio direttore, che manderà un altro ispettore per un secondo parere».
Non sarà facile coniugare un lavoro di questo tipo con la vita privata.
«Non è il classico lavoro dalle nove alle cinque, ma la mia vita è certo più regolare ora di quando stavo negli hotel e nei ristoranti. Per quanto riguarda le relazioni, il lavoro non è un problema, anche se, come ogni professione che comporti viaggi continui, è impegnativo se si hanno bambini piccoli».
Le pesa l’anonimato? I suoi familiari e amici sanno che mestiere fa?
«No. Quando vado a una festa, non dico che lavoro faccio. Lo sanno la mia famiglia e i miei più cari amici. Ma non parlerei mai con loro dei dettagli dei miei viaggi. Quando voglio condividere un’esperienza speciale – cosa che accade, per esempio, quando si scopre un nuovo ristorante – lo faccio con i miei colleghi».
È cresciuta in una famiglia in cui il cibo aveva un ruolo importante?
«La mia famiglia viveva in una piccola città, dove ho frequentato la stessa scuola per 12 anni. I miei genitori non hanno lavorato in campo gastronomico, ma mia madre è una cuoca eccellente e il cibo è sempre stato ed è tuttora parte importante della nostra vita familiare. Durante le vacanze, che passavamo spesso in Francia o in Italia, andare al ristorante era sempre il momento più bello del viaggio».
Che tipo di formazione ha avuto?
«Dopo la maturità ho fatto apprendistato in un hotel di lusso. La consideravo una buona opportunità per diventare presto indipendente, per avere un lavoro che mi permettesse di viaggiare in tutto il mondo e praticare le lingue. In Germania il percorso di apprendistato è molto ben valutato. Dopo tre anni, al termine degli esami, ho iniziato a lavorare in giro per l’Europa, come desideravo, fermandomi un anno o poco più in ogni hotel o ristorante (che sceglievo in base alla loro presenza nella Guida Michelin). Non ho frequentato l’università: il mio percorso ha avuto un orientamento molto pratico».
Ci sono libri dedicati al cibo che ritiene fondamentali?
«Mi piacciono i libri di cucina, ma la cosa fondamentale per me è mangiare, non leggere. Il cibo è una passione e anche se mi piace sfogliare i libri di ricette o leggere descrizioni storiche o teorie attuali, non c’è niente che ami di più di leggere un menu di cui sto per gustare i piatti».
Ricorda la prima volta che è stata in un ristorante stellato da “privata cittadina”? E la prima esperienza gastronomica folgorante?
«Da bambina, con la mia famiglia, non andavo in ristoranti stellati. I miei genitori sceglievano piuttosto un Bib Gourmand ( è il simbolo che indica in guida i locali dal buon rapporto qualità/ prezzo, ndr). La prima vera grande esperienza gastronomica che ricordo è stata molto più tardi: era un ristorante in Belgio, che non esiste più. Il pranzo è stato straordinario, tanto che decidemmo di pernottare per rimanere anche a cena. Il giorno dopo siamo tornati a casa, perché avevamo speso tutto il budget previsto per la vacanza! Ma ne valeva la pena: 25 anni dopo ricordo ancora il rombo che avevo scelto».
Nella vita privata preferisce i ristoranti eleganti, i bistrot o la cucina domestica?
«Mi piace la diversità. Non vorrei andare in un ristorante di alta cucina ogni giorno, e non lo faccio nemmeno nella mia vita professionale. Nella Guida Michelin, non esistono solo i ristoranti stellati, le stelle rappresentano circa il 10 per cento della selezione».
Immagino che un ispettore abbia un regime alimentare regolamentato, come gli sportivi.
Ci può dire per sommi capi come si fa a “sopravvivere” a tanti pasti fuori?
«C’è una regola semplice: niente pane! Ma la infrango quasi ogni giorno, dato che mi piace molto il buon pane. Comunque, continuo a ripetermela spesso. Immagino che un buon suggerimento sarebbe di evitare carboidrati quando non lavoro, ma lo trovo molto difficile. Suppongo di non essere una buona dieta- trainer, ma c’è una cosa che ritengo molto importante e che cerco anche di trasmettere a mio figlio: evitare il fast food e, in generale, tutti i cibi che hanno subito troppi processi – le crocchette di pollo, ad esempio – e scegliere prodotti freschi, diversi e di qualità. Cerco di muovermi il più possibile nella mia routine quotidiana. Da ispettore, cammino molto quando mi trovo in una città nuova. E ho iniziato a correre da quando faccio questo mestiere: è lo sport ideale, perché lo si può praticare ovunque, da soli e senza equipaggiamento ingombrante».
Nel film “Ratouille” il critico Anton Ego viene “redento” da una ratatouille. Qual è la sua Madeleine, il piatto che le ricorda la sua infanzia?
«Mia madre preparava spesso un semplice piatto di pasta con verdure fresche, per cui andavo matta. Lo chiamavamo Spaghetti alla Letizia, perché la ricetta arrivava da un’amica italiana che si chiamava Letizia. Quando torno a casa, lo mangio sempre! Un’altra “madeleine” è collegata al periodo dell’Avvento: in Germania, in tutte le famiglie si preparano dei biscottini che si chiamano Plätzchen. Non sono una grande cuoca, ma mi piace moltissimo cucinare i Plätzchen, che sono molto apprezzati dai vicini e dagli amici di mio figlio. Non ne mangio molti, ma mi piace sentirne il profumo in casa».
Musica, libri, artisti: cosa la appassiona, oltre al cibo?
«Quando guido, di solito ascolto la radio, non sono selettiva con la musica come con il cibo… Ora, in inverno, mi piace la musica di Holly Cole, una cantante jazz-pop canadese: stare seduta con un bicchiere di buon vino vicino a un caminetto e ascoltare uno dei suoi CD mi fa sentire bene. Leggo molto. L’anno scorso ho scoperto un autore tedesco, Joachim Meyerhoff ( Quando tutto tornerà a essere come non è mai stato, Marsilio). Mi piace la sua scrittura, è spiritosa e seria allo stesso tempo. Ogni tanto vado al cinema o a teatro, ma è raro. E adoro Matisse come artista».
La cucina è una forma d’arte o è artigianato?
«Ai livelli più alti, dev’essere sia forma d’arte sia artigianato. Ma non ci può essere arte senza una solida capacità tecnica».