la Repubblica, 1 febbraio 2018
Luca Filippi, l’ultimo dei piloti italiani. «Troppi compromessi gli Usa mi hanno salvato»
MARRAKECH C’è una storia straordinaria che si aggira per i paddock di mezzo mondo. È la storia dell’ultimo pilota professionista italiano di alto livello. Dopo il ritiro di Fisichella, Liuzzi e Trulli, dopo che la Ferrari ha deciso di scommettere sul francese Leclerc piuttosto che su Giovinazzi, la bandiera del nostro motorsport è rimasta in mano a lui, a Luca Filippi da Mondovì, ragazzo normale in un mondo di matti, buona cultura, educazione impeccabile, molto talento ma soprattutto molto cervello. Dal paddock della Formula E, di essere l’unico pilota della sua generazione ad aver realizzato il suo sogno: fare delle corse a ruote scoperte il proprio mestiere.
Ma non è stato facile.
«No tutt’altro. Se un giovane mi chiedesse un consiglio su come diventare pilota, non avrei dubbi. Glielo sconsiglierei. So che non è bello, ma è così».
E perché?
«Troppo difficile. E la cosa non ha nulla a che vedere con talento o capacità. Il percorso è lunghissimo e tu non lo controlli mai del tutto, devi saper ingoiare bocconi amari, capire quando devi stare al posto tuo, quando puoi fare una cosa o non puoi farla. Quando puoi provare a stare davanti e quando devi stare dietro. E farti trovare sempre preparato. Ma anche così non è detto che ce la fai. Ci sono tanto fattori».
Quali?
«Diciamo che nella storia dell’automobilismo sportivo c’è stata un’epoca d’oro in cui molti piloti italiani sono arrivati in F1.
Parlo degli Anni 80 e 90. Non tutti quei piloti avevano più talento dei molti che oggi nemmeno possono pensarci».
In tempi più recenti, in un sistema molto simile a questo, Fisichella e Trulli ce l’hanno fatta, però. Non sarà un alibi generazionale?
«Bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare. E bisogna ricordare che la Benetton e Briatore hanno fatto molto per loro. Senza considerare che loro erano davvero fortissimi».
Lei ha fatto un percorso particolare…
«Sì ho cominciato presto ma solo dal 2010 posso dire di essere diventato un pilota professionista. E molto devo all’America. Dopo essermi affacciato come collaudatore in F1 mi sono trasferito a Indianapolis: una figata pazzesca».
Alla fine è in Formula E. Gli appassionati faticano a considerarla una serie “vera”.
«Succede soprattutto in Italia dove c’è una passione forte per i motori tradizionali. In realtà è un contesto agonisticamente di primo piano e le macchine sono pazzesche. C’è una tecnologia incredibile, quando hanno tolto il “coperchio” di carbonio a una batteria sono rimasto sbalordito.
Sembrava il motore delle DeLorean di Ritorno al Futuro».
E poi quest’anno per lei c’è una motivazione in più. L’Eprix di Roma.
«Quando ho saputo che avremmo corso ‘in casa’ ero leggermente terrorizzato: poteva anche essere un flop. Gli italiani, come dicevo, sono degli appassionati molto esigenti… invece ho poi visto che nel giro di pochi giorni gli organizzatori hanno venduto tutti i biglietti (quasi 15mila ndr) e le simulazioni del tracciato sono incredibili. Ecco perché ora non vedo l’ora che arrivi quella gara».