la Repubblica, 1 febbraio 2018
L’amaca
Gli sghignazzi sulle liste elettorali sono una tradizione antica, e purtroppo legittimata dai fatti.
Inevitabile ridere di certi goffi carneadi, indignarsi per le candidature in odore di malaffare, constatare come la fedeltà al Capo sia un requisito spesso anteposto alla competenza e al valore.
Oggi però il megafono dei social, impietoso e per giunta auto-prodotto, avvicina sinistramente a noi quelle persone che un tempo ci faceva comodo considerare “i politici”, quasi una specie separata, coabitanti alieni.
Facce sui manifesti.
Provvisori invasori di muri e strade che poi vedremo sbiadire, infine sparire.
Adesso sappiamo invece, grazie alla politica selfie, che il professorino multiuso (si candida con Tizio perché Caio lo ha mollato), il fascista minaccioso, la mattoide antivaccinara, il millantatore di lungo corso, c’entrano piuttosto poco con la “casta” e con il Palazzo. Li abbiamo appena visti all’assemblea di condominio, o alla cassa del supermercato. Scrivono e parlano con la stessa gioiosa foga, e sbrigativa sintassi, di tutti i chattatori di questo mondo, e postano dal mare e dai monti fotine in cui salutano. Zero sacralità della politica, e va bene: ma questo carico di mediocrità, ora, non possiamo più rimbalzarlo.
Infine siamo costretti a sapere che è roba nostra, la politica, e ci assomiglia come una goccia d’acqua.