la Repubblica, 1 febbraio 2018
Pedalando in bicicletta. Big Data ci spia
ROMA La Cina si avvicina.
Neanche a dirlo, in bicicletta. E quello che le interessa è il nostro profilo di consumatori: abitudini, passioni, spostamenti, capacità di spesa e di credito.
Niente di nuovo, penserete, nell’era dell’“estrattivismo dei dati” (copyright dei sociologi), il grande mercato di big data dominato dall’algoritmo che raccoglie e fa circolare (dunque, vendere) gigantesche masse di informazioni. Materia prima, oro puro. Quel nuovo mondo dove, ha spiegato Lawrence Lessig, guru di Harvard, «il codice è legge».
Provate a pagare nello stesso giorno un paio di bonifici dal vostro conto bancario online e, magicamente, nel giro di qualche minuto vi arriverà via web una proposta di finanziamento.
Perché l’algoritmo ha immaginato che la spesa “anomala” anticipi la necessità di un prestito.
Questa volta, però, il “cavallo di Troia” parcheggiato nella nostra privacy ha le sembianze di una bicicletta cinese. A Milano, Firenze e, più di recente, a Roma, nelle vie della città (e grazie al vandalismo anche nei fiumi e, addirittura, sui rami degli alberi), si vedono biciclette multicolori sempre più numerose. A pedalare sono prevalentemente ragazzi, ma più di un professionista in giacca e cravatta ha cominciato ad usarle.
Sono l’avanguardia dell’ultima generazione del bike sharing, il noleggio delle bici diffuso già da anni nelle metropoli di mezzo mondo e che ha come antesignano il movimento dei Provos, gli anarchici olandesi che nel 1965 ad Amsterdam teorizzarono, e in minima parte realizzarono, la diffusione gratuita di ventimila biciclette bianche per gli spostamenti in città.
A differenza del servizio classico ( station based), quello per intenderci del prelievo e della consegna del mezzo in apposite rastrelliere, il nuovo sistema ( free floating) consente di prendere e lasciare dove capita la bicicletta, pagando attraverso una app che si scarica sul cellulare. Una rivoluzione, soprattutto considerando le tariffe molto basse applicate, per esempio, dai due operatori dominanti nel mondo (e in Italia): Mobike (biciclette arancioni) e Ofo (gialle).
Entrambi cinesi, ovviamente. A Milano, dove per ora le bici free floating sono complessivamente 10 mila, mezz’ora costa intorno ai 30 centesimi, e mediamente una corsa vale non più di 50 centesimi. Troppo poco, analizzano gli esperti, per sorreggere economicamente un business, visti i costi di esercizio che vanno dall’acquisto delle biciclette alla manutenzione. «Il bike sharing libero è in apparenza un’attività in perdita – sottolinea Fabio De Angelis, managing director di Accenture Strategy – ma alle aziende cinesi interessano i dati dei clienti». A rafforzare il filo rosso che lega il free floating ai big data, sono gli investimenti a sostegno dei due operatori cinesi: nel caso di Ofo spuntano Alibaba, colosso dell’e-commerce, e Didi Chuxing, azienda che ha acquisito Uber Cina. Mobike, invece, ha raccolto capitali da Tencent (il gruppo di WeChat, il Whatsapp cinese) e da Foxconn.
La profilazione di un consumatore ormai raggiunge dettagli microscopici: nel caso del bike sharing, ad esempio, grazie alla geolocalizzazione delle due ruote una catena di caffetterie potrà invitare per un cappuccino, magari con buono sconto, l’utente che si trova con la bici nei paraggi del negozio. I dati di una singola persona nel mercato di big data valgono meno di un euro, mentre secondo le stime più aggiornate acquistare 10 mila indirizzi email che danno accesso a parametri quali l’età, il sesso, le letture e gli sport preferiti, può costare 164 dollari, cioè 1,6 centesimi di dollaro per ogni indirizzo. Un business che, solo in Italia, ha generato nel 2016 un giro d’affari da 4,7 miliardi di euro.
«L’utilità del bike sharing – ragiona Federico Del Prete, “cicloattivista” e a suo tempo tra i promotori di Ciclopride Italia – è nel dare maggiore capillarità al trasporto pubblico locale, aggiungendosi a treni, metropolitane e bus».
L’ottimismo della volontà, verrebbe da dire, vedendo gli obiettivi dei colossi cinesi e i rischi per la privacy che la Ue affronterà da maggio con un nuovo Regolamento. E più in generale, la “dittatura del codice” solleva preoccupazioni che ognuno di noi dovrebbe considerare, magari rubando qualche minuto alla frenetica digitazione dello smartphone: «L’ecosistema delle startup nate attorno a tecnologie come l’Internet of Things – ha avvertito il sociologo Evgenij Morozov leggendo la sua lezione “We the Media” alla Fondazione Giangiacomo Feltrinelli – si basa più sull’avidità che sulla prudenza, un fatto che diventerà evidente quando tutti i dispositivi online si rivolteranno contro di noi e pretenderanno un riscatto».