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 2018  gennaio 31 Mercoledì calendario

Il protezionismo non basta al presidente delle lavatrici

Trump ha deciso di proteggere le lavatrici americane. E dal palcoscenico di Davos annuncia che questo è solo l’inizio: azioni saranno promosse anche in altri settori per difendere le imprese americane dalla concorrenza sleale degli stranieri. Perché Trump protegge le sue lavatrici? Le imprese americane del settore per un po’ (forse) venderanno più lavatrici negli Stati Uniti ma avranno sempre meno incentivi a diventare più competitive e innovative. I consumatori americani pagheranno di più le loro lavatrici e in prospettiva pagheranno prezzi alti per prodotti potenzialmente peggiori in termini di qualità. È un trasferimento di risorse che penalizza l’americano medio a favore di lavoratori e imprese che operano in uno specifico settore, quello delle lavatrici.
Bisogna poi pensare alle reazioni degli altri Paesi. Per le imprese americane diventerà ancora più difficile vendere lavatrici all’estero. E queste maggiori difficoltà sono destinate a estendersi anche ad altri settori. Assisteremo a una gara in cui anche le imprese che producono altri beni cercheranno di conquistare “i favori” del presidente? I consumatori americani potrebbero trovarsi a pagare sempre di più prodotti la cui qualità è destinata a peggiorare: le lavatrici e poi i frigoriferi, i tostapane, le automobili, le medicine.
Ma se tutto ciò è così evidente, perché Trump lo fa? Partiamo dal perché le lavatrici americane fanno fatica a essere vendute, in America e all’estero: si tratta di un prodotto maturo, poco complesso per quantità di conoscenza e tecnologia incorporata. I costi di produzione sono più alti negli Stati Uniti rispetto a Paesi in cui il costo del lavoro e il rispetto dei vincoli ambientali sono inferiori. Certo non è immaginabile rincorrere salari e diritti asiatici o latino americani. Le imprese americane possono produrre in Paesi lontani – non preoccupandosi troppo delle condizioni di lavoro e delle questioni ambientali – mantenendo proprietà e profitti a casa: le lavatrici “americane” si producono in Messico, Brasile, Cina, India, Turchia, Perù o Ecuador. Il problema di questo modello è che oggi molti altri Paesi sono nelle condizioni di fare la stessa cosa: gli europei, la Cina, il Giappone, Taiwan, la Corea del Sud. Si pensi all’ingente flusso di investimenti asiatici in impianti di produzione in Vietnam. Competere delocalizzando non basta più.
La soluzione che a Trump sembra più ragionevole è quella di proteggere le imprese che ancora producono negli Stati Uniti incoraggiando parallelamente un rientro dei tanti impianti che l’industria americana ha portato all’estero. Sono in molti a suggerirgli che la chiusura selettiva e strategica può funzionare. A dispetto della retorica liberista bipartisan, in tante occasioni nella storia americana le industrie nazionali sono state protette e le cose non sono andate così male. Acciaio, automobili, elettronica, i casi più ricorrenti. E la protezione di alcuni settori (nascenti) è proprio lo strumento che ha permesso a Giappone, Corea e Cina di diventare le potenze industriali che oggi conosciamo.
Tuttavia, questa è solo una parte della storia. In realtà il neo-protezionismo muscolare di Trump si spiega sulla base di considerazioni che rendono il “Presidente delle lavatrici” un personaggio ancora meno naïf. La prima ha a che fare con la domanda di continuità di cui si nutre il sistema economico e politico americano. Non c’è ricerca di cambiamento reale, né a casa né negli equilibri dell’ordine economico mondiale costituito. Bisogna difendere la struttura esistente dell’economia americana fatta di agricoltori, rancheros, operai del manifatturiero e ristrette business community. Bisogna continuare a difendere i divari esistenti tra Paesi ricchi e Paesi poveri, dove vendere e produrre senza troppi vincoli.
La seconda questione è che l’orizzonte e gli obiettivi della politica del presidente sono condizionati dal bisogno di raccogliere consenso per le tante e continue scadenze elettorali. Si tratta di uno degli handicap più importanti che pagano le nostre economie che – a differenza di quella cinese – hanno orizzonti temporali cortissimi.
Una strada diversa sarebbe quella di promuovere politiche che investano in istruzione e ricerca per permettere ad alcuni settori e a nuovi segmenti della società di guidare il cambiamento strutturale dell’economia americana. Si pensi anche alle possibilità offerte, particolarmente nei settori maturi, dall’automazione e dalla digitalizzazione dei processi produttivi. Un percorso possibile ma che richiederebbe un vero sforzo di governo e gestione del cambiamento non solo produttivo, ma soprattutto sociale. Parallelamente bisognerebbe immaginare politiche che mirino a un cambio sostanziale delle relazioni tra Nord e Sud del mondo e che sappiano contrastare lo sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. Chissà, forse gli americani domanderanno presto di cambiare rotta. Si potrebbe iniziare non accontentandosi di rimanere seduti su una lavatrice.