Libero, 30 gennaio 2018
«Anche io ho fatto da cavia per sperimentare i farmaci»
Ciao. Sono una scimmia. Anzi, peggio. Le scimmie mica possono decidere («Ehi Bongo, ti va di fare la cavia?». «Ma sì, dai...»), io invece sì. E ho scelto di ingozzarmi di farmaci a pagamento. È capitato molti anni fa, a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, in Canton Ticino. Sono ancora vivo (per ora) e ve lo racconto.
IL RECLUTAMENTO
Il passaparola tra ragazzi è clamoroso: «In Svizzera esistono delle cliniche che pagano in contanti per provare l’aspirina, il Tantum Verde, l’antiasmatico, altro». Io e i miei amichetti studenti comaschi perennemente squattrinati pensiamo si tratti della classica «leggenda metropolitana» («sarà una puttanata»), ma cerchiamo informazioni.
«Dovete chiamare Mario Rossi (nome fittizio), è l’incaricato al reclutamento delle “cavie”». Recuperiamo il numero, lo contattiamo. Esiste. Ci dice «presentatevi il tal giorno alla tal ora alla tal clinica. Lì effettueranno un test completo per capire se siete “adatti”». Ci presentiamo alle 8 del mattino. Dal confine di Ponte Chiasso ci vogliono 15 minuti di macchina. All’interno della clinica dottori, infermieri, incaricati vari in camice bianco. Ci chiedono: «Vi drogate? No perché nel caso è inutile che procediate al test sangue-urine». Procediamo. Il test è stra-completo, banalmente serve a stabilire se uno sia sano al 100%. In più, la clinica è tenuta a far sì che dopo la sperimentazione la «cavia» sia restituita ai parenti con i medesimi valori con cui è entrata.
Passiamo le analisi, siamo «arruolabili». L’incaricato al reclutamento Mario Rossi ci spiega come funziona l’ambaradan: «Si tratta di ingerire farmaci già in commercio per il rinnovo del cosiddetto “bugiardino”. Dovrete trascorrere un periodo variabile all’interno della struttura e verrà monitorata la concentrazione del principio attivo nel sangue. Al termine della sperimentazione verrete pagati in contanti e potrete essere richiamati per un nuovo test dopo minimo tre mesi. La paga varia a seconda del farmaco e della durata del trattamento». Ci propongono di tutto: antidiabetici, sciroppi per la tosse, antibiotici, collutori, aspirine, altro. «Partiamo piano: collutorio», dico io. «Paga poco, buttiamoci sull’aspirina», rilanciano i miei compagni di disavventura attratti dal Franco Svizzero.
Ci presentiamo alle ore 20 di un martedì sera, usciremo alle ore 8 del successivo giovedì mattina. Le regole ci obbligano a: A) Non fumare o bere alcolici. B) Non uscire dalla clinica. C) Mangiare completamente i pasti somministrati. D) Non introdurre alcun tipo di cibo all’interno della struttura. E) Effettuare tutti i prelievi previsti dal protocollo tramite agocannula.
TUTTI ITALIANI
Ci guardiamo attorno. Siamo 12 uomini e 12 donne, curiosamente tutti italiani («agli svizzeri non interessa molto», ci dicono); scegliamo il nostro letto (sei letti per stanza). La struttura è asettica, ceniamo e facciamo amicizia con «gli altri» quasi si trattasse di uno strambo Grande Fratello, c’è chi guarda la tv, chi legge un libro, chi prepara un esame, chi fuma di nascosto al cesso («Ne avevo due in tasca...»). La mattina alle 7 è il momento del primo prelievo, a ognuno dei 24 è assegnato un numero, dal «rubinetto» applicato al braccio esce sangue in quantità e i tempi devono essere rispettati al secondo: un prelievo ogni 15 minuti nelle prime 2 ore, uno ogni 30 minuti nelle successive 2, uno all’ora fino alle 18. Man mano che passa il tempo noi 24 ci trasformiamo in tanti piccoli zombie: la fame aumenta, ma il cibo è contingentato, fa schifo e, soprattutto, viene servito solo ed esclusivamente negli orari stabiliti. Qualcuno è riuscito a nascondere dei Duplo o dei pacchetti di cracker nelle mutande e li divide al cesso con alcuni fortunati; i conoscenti diventano amici, si ride abbastanza, infermieri «complici» fingono di non sentire l’odore del fumo. Vi dirò: ci si diverte.
La mattina del giovedì ci si dà appuntamento per la seconda fase del test (al completamento del cosiddetto wash out), ci ritroviamo più «organizzati» (sigarette importate clandestinamente, cibo a strafottere, persino alcune bottiglie di alcolici da bere in clamorose feste notturne). Passiamo altre 36 ore da topi-consapevoli e alla fine veniamo pagati in contanti (1000 Franchi). Torniamo a casa pallidi, le analisi dicono che siamo «sani come quando siamo entrati», i nostri genitori ignari ci dicono «minchia che facce, ma non andavate al concerto?», torniamo alle nostre misere vite da studenti universitari e i benpensanti ci dicono «siete dei rincoglioniti».
Sono passati circa 20 anni: ho perso i capelli e la dignità, ma a distanza di così tanto tempo «noi della clinica» organizziamo ancora «la pizzata di Natale tra cavie». Per il momento siamo ancora in 24.