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 2018  gennaio 31 Mercoledì calendario

«Non diventerò un robot». Addio a Romano Cagnoni, il più umano dei fotoreporter

Lei è un ottimista», gli disse Ho Chi Minh scrutandolo con attenzione, «e l’ottimismo fa il buon rivoluzionario. Fotografi pure». Scoppiò in una risata di gusto, assieme al suo braccio destro Pham Van Dong: e quella risata finì, poche settimane dopo, nel gennaio del 1966, sulla copertina di Life, che allora vendeva sette milioni di copie.
Romano Cagnoni ce l’aveva fatta.
Non solo a entrare, tra i pochissimi fotografi non comunisti, in Vietnam del Nord; ma anche ad avvicinare e a convincere il capo supremo, molto riluttante, a farsi prendere un rarissimo ritratto. Gli era bastato dirgli, con l’ingenuità di un ragazzo che non s’arrendeva al primo rifiuto: «I popoli d’Occidente che amano la libertà sarebbero lieti di vederla in buona salute». Fu uno scoop mondiale.
Eppure Romano Cagnoni, che si è spento ieri a 82 anni nella sua Pietrasanta, dove era tornato a vivere dopo mezzo secolo da errante planetario, fatica ancora ad essere conosciuto dai più come uno dei maggiori fotoreporter italiani del Novecento. Narratore instancabile di un mondo turbolento di cui ha raccontato, fin dagli anni Sessanta, la prima feroce globalizzazione, quella delle guerre post-coloniali, per continuare fino alle guerre asimmetriche e ai conflitti etnoreligiosi della fine del secolo.
Del resto, ventitreenne, se ne andò dall’Italia proprio per questo, perché non vedeva strade aperte, qui da noi, alla sua passione per la fotografia, scoppiata sulle spiagge della Versilia facendo lo scattino per i bagnanti. Quelle strade passavano da Londra, dove incontrò un allevatore di talenti, Simon Guttman, che gli aprì le porte delle redazioni. La sua originale, antiretorica copertura della campagna elettorale del laburista Wilson, nel 1964, convinse molti che quel ragazzino italiano entusiasta aveva talento.
Per i funerali di Churchill, il Sunday Times scelse due foto simbolo: una di Henri Cartier-Bresson, l’altra era sua. Poi vennero decine di altre copertine e di foto da prima pagina e centinaia di servizi sul Times, l’Observer, il New York Times, il Guardian, in Italia per L’Espresso e Epoca. Nel corso dei decenni Cagnoni coprì le aree più calde del pianeta, dalla Cambogia a Israele (dove seguì la guerra dello Yom Kippur), dal Cile di Allende (dove lavorò fianco a fianco con Graham Greene) all’Argentina di Peron, fino in tempi più recenti ai Balcani, alla Cecenia, al Medio Oriente.
Ma seguì soprattutto e con grande partecipazione umana l’Africa delle carestie e delle guerre.
Scoprì il Biafra da solo, quando pochissimi giornali ne parlavano, spulciando come continuò sempre a fare la stampa internazionale fin nelle pagine più marginali, per cercare gli eventi che sarebbero diventati notizie da prima pagina. In una delle sue foto più celebri da quel paese decine di reclute a petto nudo, schiacciate dal teleobiettivo in una massa compatta, sono l’icona della spersonalizzazione letale di un continente in fiamme. Ma la ragazzina incinta che attraversa un esilissimo ponticello in Nuova Guinea è un canto di speranza e di poesia. In una bella recente intervista al sito Maledetti fotografi Cagnoni ha confessato di non essersi mai considerato un fotogiornalista, ma «un fotografo che pubblica le sue foto sui giornali». Fotografo umanista costretto a raccontare la disumanità, la sua paura più grande era di ripetersi, di cadere in un cliché, di «diventare un robot insensibile».
Nel 2015, ormai vicino agli ottanta, entrò clandestinamente in Siria, con la terza moglie Patricia Franceschetti, fotografa come lui, scavalcando di corsa il confine turco per evitare il tiro delle guardie di frontiera.
Ma questa volta non fece foto: mise in mano uno smartphone ai ragazzi di laggiù e chiese loro di farsi un selfie che gridasse al mondo “io esisto”. Ma quale robot, ma quale cliché.