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 2018  gennaio 31 Mercoledì calendario

Ciriaco De Mita: «Ho 90 anni ma sono più giovane di Renzi e Berlusconi»

Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio dall’aprile 1988 al luglio 1989, unico democristiano a cumulare la carica con quella di segretario del partito, guidato dal 1982 al 1989, quattro volte ministro, deputato dal 1963 al 2008. Il 2 febbraio compie 90 anni. E non ha mai smesso di fare politica.
«Perché dovrei? Mi piace la comprensione dei fenomeni».
Il suo quasi coetaneo Silvio Berlusconi è ancora in corsa alle elezioni.
«Io sono più giovane di Berlusconi».
La devo correggere. Berlusconi è del 1936.
«Perché, lei vede l’anagrafe? Io vedo le fotografie».
Ha cercato anche lei di candidarsi ancora?
«Non ho più desideri, tranne quello di parlare e suscitare curiosità. Del resto, mi creda se le dico che non mi ha mai guidato l’ansia del potere ma il piacere, in cui eccelleva Aldo Moro, di governare i processi politici».
Quando è cominciato questo piacere?
«Avevo 8 o 9 anni».
C’era ancora il fascismo.
«A Nusco il regime mandò dei confinati. Venivano nella bottega di mio padre che era sarto, chiudevano le porte e chiacchieravano. Ma il mio primo maestro di politica fu il preside della scuola media, un sacerdote».
Diventò così democristiano?
«No, ma capii le colpe del re e del regime e che non bastava volere la caduta del fascismo e la fine della monarchia. Il punto era che dovevamo perdere la guerra».
Poi la prima candidatura in Parlamento nel 1958, senza successo.
«Quando chiusi la campagna elettorale al comizio finale di Avellino accusai i vescovi di simonia, perché vendevano le preferenze».
Non è stato anche lei un signore di tessere e preferenze?
«Critiche all’ingrosso, sono il solo politico che ha allevato classe dirigente. Quando mi elessero, in provincia di Avellino c’era un solo deputato. Non è colpa mia se a ogni elezione ne eleggevo uno nuovo. Ma era tutta classe dirigente».
Anche chi, come Clemente Mastella, le ha voltato le spalle?
«Col senno di poi, mi sono posto la domanda se avessi fatto bene a promuovere proprio tutti. Mi sono risposto di sì. L’amico che coglie la convenienza del momento fa parte delle cose della vita. E comunque politicamente sono sopravvissuto a tutti».
Qualcuno conta anche Renzi tra i suoi discepoli.
«Nella Margherita Renzi stava con Rutelli e l’accoppiata dice già molto. Ma aveva simpatia nei miei confronti. Poi per tanti anni non ci siamo mai visti né sentiti. Una sera del 2016 mi chiama: sono nella tua terra, volevo salutarti e dirti che conservo le tue lezioni. L’ho incontrato solo mesi dopo in tv, al duello sul referendum, dove mi ha riservato attacchi volgari».
Cosa rimprovera a Renzi?
«Parla solo del presente, passato e futuro gli sfuggono. Ed è di un cinismo senza limite. La sfido a trovare un personaggio di livello nella sua ciurma».
Non voterà per lui.
«Voto per mio nipote Giuseppe».
Ma è candidato nella lista di Lorenzin, alleato di Renzi.«Mica Renzi lo posso togliere io».
Invece i suoi ex compagni dell’Udc sono finiti con Berlusconi.
«Si sono venduti. E per cosa?
Berlusconi pensa solo alla tutela dei suoi interessi. Il resto non gli è mai importato. Quando diventai segretario della Dc venne da me. Mi disse: sono per la libertà di informazione. Pure noi, gli risposi.
Ma sulla legge Mammì sulle tv riuscì a mandarci sotto. Ci fregò Andreotti».
Il suo grande avversario nella Dc degli anni Ottanta.
«Andreotti aveva questo difetto, l’eccesso di disinvoltura. Se la sua opinione non poteva prevalere, passava a quella dell’avversario.
Non l’ho visto mai battersi per una sua idea».
E le accuse di mafia? Su alcune imputazioni lo ha salvato la prescrizione.
«Non ci sono prove».
Ma la sua corrente in Sicilia era collusa con la mafia.«Io la smantellai, la sua corrente.
Presi informazioni sui suoi uomini in Sicilia. Era vero che molti erano collusi. Andreotti mi disse: io sono d’accordo con te a smantellare ma non lo dire. Fallo e basta. Così era l’uomo».
Tra i giovani del rinnovamento dc in Sicilia c’era Sergio Mattarella.
«La sua crescita politica allora non era immaginabile. Mattarella ha una finissima capacità di analisi della situazione».
Agnelli la definì «un intellettuale della Magna Grecia».«Come battuta poteva passare, come riflessione era molto carente».
Montanelli aggiunse: non vedo la Grecia.
«Con Montanelli litigai solo una volta. Quando scrisse un pezzo che definiva camorrista la Dc. Mi chiese invano di ritirare la querela. Come non ho mai tollerato le accuse sul dopo terremoto in Irpinia».
De Mita e i comunisti. Un rapporto di amore e odio.
«Da segretario tentai di convincere Berlinguer a una nuova intesa sulle riforme istituzionali ma non ci riuscii».
Che rapporti avevate?
«Di altissimo valore umano. Ci incontrammo la prima volta in segreto in una bettola a Testaccio, di prima mattina, grazie ad Aniello Coppola. Era il 1969. Al congresso del Pci, parlando dello Stato, Berlinguer aveva citato Machiavelli anziché Stalin come Terracini. Ero curioso di conoscerlo. Una volta equivocò un mio giudizio e se la prese. Mi disse: ringrazia Iddio che siamo amici perché sennò un sardo non ci sarebbe passato sopra».
Con Craxi i rapporti furono più tesi.
«Solo a tratti. Lo incontrai la prima volta uscendo da Baffetto, un ristorante di Roma. Ero con Marcora, il leader della corrente di Base. Marcora gli chiese: dove vai?
Rispose con una volgarità».
Cioè?
«Meglio non scriverlo. Diciamo che spiegò che andava a un appuntamento galante».
Fu lei a mandarlo via da Palazzo Chigi.
«Bugia. Dopo le elezioni del 1983 proposi di mandare lui a Palazzo Chigi. Rispose: bene, vado io per la prima parte della legislatura e poi vai tu per la seconda. Gli dissi che non sarei andato io, ma un altro dc. Poi cercò di far saltare la staffetta andando a elezioni anticipate».
E si alleò con Andreotti e Forlani.
«Ma era solo un’alleanza difensiva.
Dopo le elezioni nel 1992 mi disse: facciamo il governo con me presidente del Consiglio, tu agli Esteri, Visentini all’Economia.
Giriamo il mondo».
Invece Craxi stava per essere abbattuto dalle inchieste.
«Quando una istituzione si logora la si rinnova. Noi lasciammo il sistema della Prima repubblica com’era, meravigliandoci poi che non funzionasse. Non so se sia accaduto per inerzia o per calcolo. A qualcuno giova che questo sia un Paese senza regole, nella politica, nella magistratura e nella stampa».
Ma i reati c’erano.
«Era falsa però la rappresentazione di Tangentopoli come lo scontro tra il bene e il male. Gli uomini hanno un pezzo di immoralità, tutti. Poi la affrontano, la risolvono, a volte prevalgono a volte soccombono. Ma nessuno è una vergine».
Il miglior ricordo del suo anno a Palazzo Chigi?
«Se devo citare un evento, è l’incontro con Gorbaciov. Gli chiesi se il marxismo era ancora attuale. Rispose: ce ne sono tante forme, come del capitalismo. La moglie intervenne per difendere il sovietismo. E lui, il capo del comunismo mondiale, la interruppe: cos’è l’uomo senza spiritualità?».
Torniamo a oggi. Come valuta il M5S?
«Io i 5stelle ho provato a capirli, ma se le dovessi dire che ci sono riuscito, mentirei. Non ho mai trovato uno di loro capace di spiegare un percorso chiaro secondo una logica comune. La sola cosa positiva di questo movimento è che evita derive lepeniste».
Possono vincere le elezioni?
«Non lo so, ma il rischio è mettere la mitraglia in mano ai bambini».
Ma se non c’è una maggioranza dopo le elezioni, come se ne esce?
«Siamo in una condizione tragica.
Speravo si potesse mettere insieme il fronte democratico e quello popolare, lasciando dall’altra parte chi la cultura democratica non l’ha posseduta e anzi avversata, come la Lega. Ora non è più possibile. I governi non possono nascere come la pesa del maiale».
D’Alema propone un governo del presidente.
«Il governo del presidente serve a risolvere emergenze economiche non problemi politici».
Le manca molto la Dc?
«Manca anche a tanti ex comunisti con cui parlo tutti i giorni. La raffinatezza della Dc era nell’idea che la politica non si risolve in un programma di governo. Quelli che risolvono il problema prima, con gli elenchi delle cose da fare, barano.
Le cose da fare le scegli nel momento in cui le puoi fare. È la grande lezione di Moro e De Gasperi».
Presidente, un desiderio prima di spegnere le candeline.
«Sono stato 50 anni a lavorare. Mi piacerebbe non sentire più in giro gente che sostiene che non dovrei prendere la pensione».