la Repubblica, 31 gennaio 2018
Meno club, più vivai. Come salvare il calcio italiano
Il calcio italiano è al suo punto più basso. In un labirinto. Senza Mondiale dopo 60 anni, senza governo in Federcalcio né in Lega, affronta la sfida più difficile per rinascere. Il commissario che domani sarà nominato dal Coni, lo stesso Giovanni Malagò, avrà tra le mani un sistema congelato dall’ingovernabilità, spolpato dalla crisi economica, etica e tecnica, dilaniato da lotte intestine per il potere. La missione di restituirgli credibilità e competitività è una strada in salita. Ma il calcio che vorremmo gira attorno a pochi punti chiave.
La riforma dei campionati, per cominciare. L’attuale sistema ha 3 categorie professionistiche e 96 squadre. Una, il Modena, è fallita in corsa. Numeri più grandi esistono solo in Brasile (128 club) e Russia (100). Gli altri modelli: 92 squadre su quattro divisioni in Inghilterra, 56 in Germania, 42 in Spagna, 40 in Francia.
Trasformare la Serie C in un’area semiprofessionistica, con sgravio dei costi e tutele sulla proprietà dei calciatori è inevitabile. Diversa la questione del taglio a 18 squadre della Serie A per ridurre lo squilibrio. Il format attuale è figlio di una soluzione tampone adottata nel 2003, quando il Tar riammise il Catania in B. In Europa le leghe principali hanno 20 squadre – a 18 restano Germania, Portogallo, Olanda e Turchia – e le federazioni in espansione allargano i tornei. Tagliare due posti è una soluzione, ma la competitività del torneo si incentiverebbe di più intervenendo sulle retrocessioni – erano 4 e ora sono 3 – e sulla ripartizione delle risorse, che oggi consolano le ultime con un ricco paracadute economico per la retrocessione. La legge di bilancio 2018 ha modificato la norma Melandri e promette una divisione più equa dei soldi provenienti dai diritti tv. Va cambiata la Coppa Italia: schiava della televisione, favorisce spudoratamente le più grandi, che giocano sempre in casa.
Le squadre B, una realtà in Spagna e Germania, sono un’esigenza per far crescere i giovani in un torneo vero. Vanno calibrati i limiti d’età (under 23 o 21) e di passaggi in prima squadra durante la stagione. In serie C c’è posto e possono creare interesse.
Gli stadi restano un problema irrisolto: l’organizzazione di un grande evento sarebbe la chiave per dare impulso al sistema, in crisi dopo la mancata assegnazione degli Europei 2012 e 2016. La Serie A si nutre di tv per metà dei ricavi ma ha dimenticato il pubblico reale: nell’ultimo report Uefa c’è una sola italiana, l’Inter, fra le prime 20 per pubblico. La percentuale di riempimento degli stadi, 64%, è lontana dagli altri Paesi. Un’idea viene dalla Spagna: i club che non riempiono i tre quarti degli spalti subiscono una decurtazione dei profitti televisivi.
Al semiprofessionismo si lega la sostenibilità. Dal 1986 a oggi, sono state cancellate 178 squadre. Dopo il caso Parma – fallito nel 2015 a campionato in corso – dalla prossima stagione i club dovranno chiudere l’esercizio in pareggio per iscriversi. L’Uefa li obbligherà a pubblicare i bilanci sul web. Ma è la certezza della sanzione il vero snodo: molte società in difficoltà erano state escluse dalla Commissione di vigilanza a luglio e poi riammesse con un buffetto.
Ancora: in Italia ci sono più di 7mila scuole calcio, ma spesso l’istruttore non è qualificato.
Indispensabile è una formazione nel centro tecnico nazionale di Coverciano, rendendo obbligatorio il patentino di allenatore del vivaio per chi lavora con i ragazzi. Il piano dei centri federali (oggi 30, l’obiettivo è 200) non funziona: impianti già esistenti che per un’ora e mezza a settimana vengono dedicati alle migliori promesse locali. Servono più allenamenti e più qualità. Ma per tutelare gli interessi della Nazionale c’è bisogno di interventi coraggiosi, nei limiti di quanto permesso dai vincoli comunitari: più che sui giocatori tesserati, si possono introdurre obblighi per l’impiego di calciatori eleggibili in azzurro, o un meccanismo a premi. Lo Ius Soli sportivo permette a chi nasce in Italia da genitori immigrati di giocare nei campionati nazionali. Ma per vestire la maglia delle giovanili serve la cittadinanza: un limite da discutere col Viminale. Per la Germania campione del mondo il volano è stato l’integrazione, utile anche nella lotta al razzismo. Un tema, quest’ultimo, su cui il sistema ha abbassato la guardia, addolcendo le sanzioni progressivamente. Ma come dimostrano i buu negli stadi ultima vittima il senegalese Koulibaly – e il caso degli adesivi antisemiti col volto di Anna Frank – sanzionati con 50mila euro di multa – la questione richiede urgenti interventi.
Nel quadro della giustizia sportiva, l’ulteriore esigenza è garantire l’autonomia degli organi giudicanti, che operano in modo indipendente ma sono nominati dalla Federcalcio. Il tribunale potrebbe far capo invece a una Commissione di garanzia che dovrebbe esprimersi sulla legittimità delle nomine negli uffici. La riforma Borrelli ha abolito l’Ufficio indagini e riunito funzioni inquirenti e requirenti, ma ha prodotto inchieste spesso lente e incomplete. Il calcio italiano è in un labirinto.