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 2018  gennaio 31 Mercoledì calendario

Il basket come metafora. «Che farebbe Socrate contro il pick and roll?»

Cantù Marco Sodini si distingue dal luogo comune. Di professione fa il coach di basket, ma il passo è quello dell’esploratore: di uomini, di culture, di parole (ha un blog letterario sulla rivista del club) e, en passant, di tecniche di sopravvivenza fra un proprietario russo in esilio, problemi economici e il dolce peso di una tradizione che potrebbe schiacciare chiunque al primo anno da capo allenatore: «Cantù è un posto che dà i brividi, si inciampa nel basket a ogni angolo di strada. Ero qui da tre giorni e un vecchietto dalla finestra mi fa: “Sodini, giochiamo bene domenica, eh?”». 
Gli ha dato retta: Cantù è la migliore di tutte nel rapporto premesse-risultati. 
«L’inizio è stato duro, ora la situazione si è normalizzata. La mia fortuna è che sono un autodidatta abituato ad arrangiarsi: ci sono cose impossibili per quasi tutti finché qualcuno non le rende possibili». 
Come ha tenuto la squadra lontana dai problemi? 
«Ho chiuso le porte degli allenamenti e mi sono fatto forte del mio ruolo di matricola. Il manifesto ai giocatori è stato: “Do ut des”. Condividiamo, conviene anche a voi. L’autorevolezza non è autorità. Piuttosto che dire fesserie, meglio dire non so, mi informo, torno e vi dico».
Lei è una rarità... 
«Ma l’esercizio del dubbio è fondamentale nella vita».
Gregg Popovich ai collaboratori chiede il dissenso. 
«Infatti è un modello indiscusso per cultura e pensiero laterale. L’idea è: in campo vai meglio se non pensi solo al campo. Perciò uso tante metafore. Che farebbe Socrate col pick’n’roll di Sacchetti?».
Lei si rivede più nel primo o nel secondo? 
«Io mi sento più Ellery Queen, il giallista detective. Il riferimento tecnico però è Luca Banchi, l’androide del basket: sa tutto e vede tutto prima».
Non c’è Cantù senza Milano. Cos’è l’Olimpia per lei? 
«Ci ho lavorato tre mesi intensi e contradditori e ho colto la netta distanza tra squadra e città. Se la squadra non è più che perfetta non interessa. Troppe aspettative per la realtà economica del club».
Ma chi paga il biglietto non ha sempre ragione? 
«A me piacciono i tifosi incazzati con me, meglio del silenzio. Vorrei però obiettività. Ma l’italiano è risultatista». 
È vero che sogna una rivalità Sodini-Pianigiani come quella Bianchini-Peterson nell’età dell’oro? 
«Sì. Il confronto della comunicazione è qualcosa che manca e che servirebbe».
In che senso? 
«Tempo fa scrissi un articolo: “La comunicazione enfatica”. Valerio Bianchini lo lesse e mi disse che andrebbe insegnata ai corsi per coach. Serve che l’allenatore torni centrale, ma i miei colleghi non lo capiscono. A loro dico: fate vedere quanto siete bravi, si può dire la stessa cosa in altri modi».
Ma ci servono nuovi guru? Per un Mourinho autentico esistono tanti imitatori che non vincono nulla… 
«Premesso che io non posso neanche stare nella stessa frase con Mourinho, il guru dovrà rispondere sempre coi risultati. E comunque il meglio nel basket è arrivato con le personalità che fondano i cicli: Pianigiani, Messina, Peterson, Taurisano qui».
Capitolo giocatori: non è che ci siamo sbagliati a definire questa generazione la migliore di sempre?
«Non è un errore, ma un equivoco: se nell’Nba sei specialista o gregario, perché in Nazionale dovresti sapere fare tutto? Meneghin e Riva facevano la stessa cosa nel club e in azzurro; Belinelli no, anche se è fantastico. Non è questione di talento, ma di ruoli». 
Si uscirà dall’impasse? 
«Sì, con pazienza e non con il protezionismo. Se un 16enne è meglio del 40enne io lo faccio giocare, sennò vorrei che lavorasse per imparare». 
Il sacrificio è fuori moda? 
«Sul tema in Italia ci vorrebbe una controriforma. Si tollera troppo l’errore. Quando prendevo un brutto voto a scuola, non veniva discusso l’insegnante. Vorrei sentire dire più spesso: ho sbagliato, come posso migliorare?».
Lei presenta ogni partita con un tema sempre diverso: una volta Dante, un’altra la fisica quantistica. Piccoli e originali show mediatici. 
«Potevo usare una maschera e dire le solite cose. Invece ho scelto di essere me stesso: un creativo analitico, quasi ingegnere informatico (mi mancavano 4 esami), che legge, parla e scrive di tutto». 
Lei, Banchi, Pianigiani e Diana, ma anche Allegri, Sarri, Spalletti. Perché la Toscana è terra di allenatori? 
«Perché siamo una regione contraddittoria: ci sono luoghi più aperti come Viareggio e Livorno e più chiusi come Firenze e Siena. La mescolanza genera spregiudicatezza, leadership, ironia e autoironia».
E permalosità, dicono. 
«Ah sicuro! Siamo i più permalosi d’Italia».
Cantù dove arriverà? 
«L’ambizione è migliorarci come persone e come gruppo. Intrusi, ora che ci siamo vogliamo rimanerci».
E Sodini dove arriverà? 
«Comunque in un campo di basket con un pallone che rimbalza. Non importa dove».
Ma alla fine il basket di che cosa è metafora? 
«Del paradosso. È se stesso e il suo contrario, ed è sempre coerente nella sua mancanza di ripetitività. Una farfalla fa la pipì a Pechino e noi sbagliamo un tiro qui».