Corriere della Sera, 31 gennaio 2018
Fedra e l’assassino di sua madre. «Da 20 anni cerco di incastrarlo»
CIVIDALE (Udine) Un giorno d’aprile del 1997, davanti alle braccia allargate del procuratore di Udine, Fedra scoprì la terribile verità: «Mia madre non era stata vittima di un incidente stradale, come mi aveva sempre detto il nonno per senso di protezione. Era stata uccisa. E stavano archiviando l’unico indagato per il suo delitto». Il delitto, cioè, di Marina Lepre, maestra elementare di 40 anni strangolata e gettata nel greto di un torrente della periferia di Udine la notte del 26 febbraio 1989.
Fedra non aveva ancora nove anni e aspettò invano la madre a casa dei nonni. Secondo gli inquirenti quello poteva essere l’ultimo di una serie di omicidi commessi negli anni Ottanta e attribuiti al misterioso Mostro di Udine che aveva ucciso altre quattro donne sfregiandole al ventre con una lama, forse un bisturi, come Marina Lepre. L’indagato era un medico locale, deceduto nel 2006, sorpreso vicino al luogo del delitto con fare sospetto ma uscito dall’indagine per mancanza di prove.
Travolta dalla tempesta emotiva, Fedra Peruch ebbe un periodo difficile ma decise di dare battaglia. Una battaglia lunga vent’anni. Con la rabbia di una figlia che vede calare il sipario sull’omicidio della madre senza un colpevole, è riuscita a far riaprire il caso per due volte dopo altrettante archiviazioni. E anche dopo l’ultima, del 2014, ha continuato a cercare tracce, reperti, testimoni. L’anno scorso aveva anche pensato di chiedere allo Stato un indennizzo come familiare di «vittima di reato violento» ma ha dovuto rinunciare: il suo reddito di 12 mila euro risulta troppo alto per ottenerlo. Supera beffardamente di qualche centinaio di euro il tetto massimo stabilito dalla legge (11.528,41 euro). «Mi sembra ingiusto fare una distinzione fra familiari di vittime omicidi insoluti sulla base dello stipendio: il dolore è lo stesso!».
Per aggirare l’ostacolo Fedra ha messo in pista la zia Maria Amedea, sorella pensionata della madre, che rientra nel parametro reddituale. Ma anche lì si è alzato un disco rosso. Due settimane fa i suoi avvocati, Carlo Monai e Francesca Canciani, hanno ricevuto dalla Prefettura di Udine una lettera che lei non avrebbe voluto leggere: «Non è possibile procedere all’esame dell’istanza – scrive il viceprefetto Davide Lo Castro – All’indennizzo sono ammesse tutte le vittime dei reati intenzionali violenti commessi successivamente al 30 giugno 2005, data di entrata in vigore della direttiva europea». Un termine introdotto il 27 novembre scorso dalla legge italiana. Insomma, per Fedra Peruch sono stati vent’anni di batoste, di impunità, di bocciature e di sfortune a tutti i livelli. Eppure lei, che oggi ha 38 anni e una famiglia, non smette di crederci: «Sto valutando con il mio avvocato la possibilità di chiedere la riapertura dell’indagine. La nuove tecnologie potrebbero analizzare altri reperti di cui sono in possesso».
Fedra non molla. Vuole che sia stabilita la verità su quella notte d’inverno e anche sulla figura della madre. «Hanno scritto di tutto ma era solo una persona debole con problemi di depressione dopo la separazione da mio papà… Io ricordo che, nonostante le cattive condizioni di salute, mi faceva sempre stare bene». Ha scolpito una scena nella sua mente. «Per me quella sera è andata così: lei ha chiesto un passaggio in auto per andare a casa perché non se la sentiva di guidare. Deve aver fatto autostop, che a quei tempi non era ancora una cosa folle. Qualcuno l’ha presa per una prostituta, l’ha caricata e poi è successo il resto». Ecco, il desiderio di Fedra è dare un nome a chi era alla guida di quell’auto. In questi vent’anni ci ha provato in tutti i modi. Nel 2006, dopo aver scoperto che il mazzo di chiavi stretto in pugno da Marina Lepre il giorno del delitto non era di casa loro, le consegnò agli inquirenti: «Hanno così ripreso a indagare ma poi, non trovando il proprietario delle chiavi, hanno archiviato».
Nel 2012, tornata in possesso dello scialle indossato da sua madre sempre quando fu uccisa, dette un nuovo impulso all’indagine. Anche lì: nuove analisi, Ris in campo ma niente da fare. Dal suo punto di vista manca solo qualche metro al traguardo che continua a sfuggirle, una prova: «La sto cercando da molti anni, perché penso di sapere chi è l’assassino ma finché non ho certezze non posso fare nulla e tantomeno dire il suo nome». La caccia all’assassino, dunque, prosegue incessante, solitaria, commovente.