La Stampa, 31 gennaio 2018
Noi e la collezione in un solo respiro. Così la famiglia Cavallini-Sgarbi ha riunito i centotrenta pezzi in mostra da sabato a Ferrara
Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice è la speranza dipinta su una ceramica di Andrea Parini, una delle opere incise nella mia memoria poetica della Collezione. Manufatto di straordinaria tenerezza, manifesto dell’amore di un padre verso una figlia.
Un pudico ma volitivo ottativo: Figlia, ti vorrei casalinga e scrittrice. E così avrebbe potuto volere mio padre. Sembra, a un primo sguardo, l’espressione di una famiglia patriarcale del secolo scorso. La parola casalinga può suonare arcaica, finanche diminutiva, ma scrittrice assume e sublima qualsiasi residuo negativo.
In ogni caso, nella mia famiglia, e in particolare per me, mai quella frase avrebbe assunto una venatura patriarcale, perché la presenza di mia madre lo avrebbe impedito secondo un principio essenzialmente anarchico: le regole e i riti potevano essere sovvertiti per giusta causa. E la giusta causa era sempre, fin troppo facilmente, a portata di mano.
Così, la casa di cui quella figlia avrebbe dovuto, nei desideri del genitore, essere custode, non è mai stata solo una casa, ma un mondo aperto, un’opera aperta. Mia madre, complice mio fratello prima, me stessa poi, ha reso la casa di Ro Ferrarese – paese remoto sotto l’argine del Po – il centro di un mondo complesso e variegato, viavai di una teoria di personalità che hanno segnato la cultura italiana e non solo dagli Anni Settanta sino ai giorni nostri: da Giorgio Bassani (sodale di mio zio Bruno, fratello di mia madre, anticipazione di mio fratello Vittorio che di Bruno è la piena realizzazione) sino a Valerio Zurlini, Alberto Moravia, Umberto Eco e oltre. Teatro di duelli epocali, sfuriate, tenerezze, amori, accordi editoriali, della fondazione di una nuova casa editrice, La nave di Teseo, che è parte essenziale della mia vita e che pubblica questo catalogo.
E mentre le persone si susseguivano a ritmi e orari vertiginosi, tanto che, oramai, le giuste cause, le eccezioni diventavano il rito da officiare in questa zona franca della cultura, si costruiva la Collezione Cavallini Sgarbi, di cui, lo dichiaro, sono stata spettatrice curiosa, mai consultata e per questo, spesso, piccatamente disattenta (sono molto permalosa).
Ma mentre la mia vita editoriale si definiva, lontano da Ro, a Milano (non scrittrice, dunque, ma editore), la casa di Ro Ferrarese viveva la sua radicale trasformazione in una entità indefinibile: casa nel pieno senso della parola, rifugio per tutti noi viandanti della famiglia (che a Ro sempre siamo tornati), e rifugio per tutti i viandanti che volevano gustare l’ebrezza dell’arte; ma anche museo, quadreria infinita: non perché realmente infinita, ma perché in breve tempo si è smesso di badare al perimetro numerico e spaziale delle opere e dei libri antichi.
Non so se nella memoria di mio padre e di mia madre vivesse ancora la casa come era prima della rivoluzione; non so cosa rimanga in quella di mio fratello; in me essa è molto presente. E questi quarant’anni di collezionismo vorace rappresentati in queste oltre cento opere in mostra, sono l’anima della nostra casa di Ro, anima che varca le mura fisiche della casa, per tornare alla sua vera casa che è il mondo. Dopo il 3 novembre 2015, giorno in cui nostra madre, Caterina Cavallini, ha intrapreso un viaggio diverso, c’era bisogno, forse, per tutti noi, di fermarci e dare una forma alla vita, perché avevamo meno vita dentro e intorno a noi. Non avevano più la Rina. La Fondazione Cavallini Sgarbi (nata nel 2008 ma riconosciuta nei primissimi mesi del 2016) è la forma in cui si cristallizza la vita esondante e illimitata della Rina; e in essa si cristallizzerà la nostra, almeno in parte.
Per questo motivo, tanta parte ho avuto, personalmente, nella costituzione di questa Fondazione, e soprattutto in questa mostra al Castello Estense. Un impegno che è stato preceduto da un lavoro non meno importante: il restauro e la restituzione a Ferrara delle Case dell’Ariosto, le Case Cavallini Sgarbi, in via Giuoco del Pallone 31, ove il sommo poeta ferrarese compose la prima edizione dell’Orlando Furioso, quella del ’16: ora le case, che il padre di mia madre comprò dopo la guerra, e che mia madre non volle mai vendere, sono non più mie, non più nostre, ma patrimonio della Fondazione che porta il mio nome, Elisabetta Sgarbi, e che, dopo di me, avrà una naturale destinazione, alla comunità culturale di Ferrara. E non posso non ricordare, nelle attività della mia Fondazione per Ferrara, l’angelo rosa, di terracotta, di Giuseppe Bergomi, che veglia e accoglie all’ingresso della cappella di famiglia. (Veneto, si dirà, non Ferrara. Ma mio padre Giuseppe, scrittore, che a Stienta ha vissuto, mi ha sempre raccontato che in famiglia si sentivano molto più prossimi a Ferrara, che non a Rovigo).
Ferrara, il Castello e le Case dell’Ariosto sono stati luoghi di elezione di nostra madre. Racconta mio padre nel suo terzo libro, Lei mi parla ancora, che la Rina, appena sposata, d’improvviso, con una velocità che abbiamo imparato in seguito a riconoscerle, inforcava la bicicletta e scappava a Ferrara da Stienta dove era costretta a convivere con i suoceri.
Poi, una volta a Ro, plenipotenziaria della casa, (forse stanca di fughe in bicicletta) trasformò, con un carattere da donna della mitologia, o del futuro, Ro in Ferrara. Ed ecco perché questa mostra, più di ogni altra in cui le opere della Collezione sono state esposte, va dedicata a lei; ed ecco perché questa mostra, come nessun’altra della Collezione, mi ha visto parte così attiva attraverso la mia personale Fondazione.
Ho scritto poco sopra che la Collezione lasciava le mura della casa di Ro. È vero solo in parte. Perché la Collezione non potrà mai lasciare la casa di Ro, essendovi profondamente incarnata.
È essa stessa la casa, in un solo identico respiro. Le opere disposte, o semplicemente posate, appese, adagiate, sono parte della nostra famiglia. Ci parlano e ci guardano crescere da anni, e noi le guardiamo da anni. Quelle opere sono le mura della nostra identità (se mai ne avessimo una), i «ghiacciai della nostra memoria» (Rimbaud), i pilastri della nostra (supposta) saggezza. Sono gli occhi con cui guardiamo le bellezze e le bruttezze della vita di fuori.
La casa di Ro sarà sempre, anche per gli anni senza di noi, un modo di dire la Collezione Cavallini Sgarbi: non propriamente un sinonimo, ma una locuzione che, oltre la presenza fisica delle opere, farà balenare anche la memoria delle nostre esistenze personali. E in omaggio a questa osmosi, e in particolare in omaggio a mio fratello Vittorio – per il quale ho pensato e voluto questa mostra, forsennatamente proprio al Castello Estense e non altrove – menzionerò l’unica opera/non opera della casa che si sottrae alla collezione. È un’opera significativa perché, più del pozzo del giardino, ricoperto integralmente da una Sophora Japonensis cara a mio padre, fa bella mostra di sé, e dice quello che noi Sgarbi/ Cavallini siamo stati per poco. Racconta una esistenza che non abbiamo voluto abbracciare, una normalità da cui nostra madre, più di nostro padre, ci ha fatto deviare.
E quindi un manufatto che ci racconta: un vecchio canestro da basket, arrugginito, trasformato da un amico, Cristiano Taddia, con la mia complicità, in un portafiori.
Quel canestro è uno dei pochissimi residui visivi che raccontano la casa prima della rivoluzione. L’altra casa che vive solo nella nostra memoria (mia, di mio fratello), e che si sottrae alla memoria collettiva e anche al progetto della Fondazione Cavallini Sgarbi. Grumo di vita vissuta, traccia del nostro passato remoto sopravvissuta al ciclone della cultura che ha investito e mutato il volto della casa.
Quell’aria di paese – il canestro come la trombettina della poesia di Corrado Govoni – di cui ogni tanto sento una forte nostalgia.
Promuovendo con la Fondazione Elisabetta Sgarbi questa mostra ho inteso rendermi, dunque, la bambina di Andrea Parini; rispondere a quell’ottativo paterno (misterioso e profetico) di farmi custode della casa (quella vecchia e quella nuova), dunque casalinga, per scrivere, a modo mio, nel solo modo che so, la storia della mia famiglia, Cavallini e Sgarbi.