il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2018
Petroli: un decreto di Renzi ha trivellato i poteri delle Regioni
Un decreto arrivato sei mesi dopo il referendum sulle trivelle che, con un colpo di mano e nel silenzio, ha annullato le “forti intese” tra Regioni e governo necessarie per prendere decisioni su opere importanti e fondamentali, dalle estrazioni petrolifere alla gestione delle raffinerie come quella di Taranto.
Grazie a una modifica introdotta dal governo Renzi, gli enti locali possono essere sostituiti in qualsiasi momento e su qualsiasi tema dall’esecutivo. Strategico o meno, che siano d’accordo o meno. Come è successo in dicembre: il Consiglio dei ministri, su proposta del premier Gentiloni, ha dato il via libera al procedimento sulla richiesta dell’Eni di adeguamento delle strutture di logistica della raffineria di Taranto “in considerazione della grande rilevanza strategica dell’opera per le politiche energetiche nazionali”. Una autorizzazione concessa “mediante il superamento della mancata intesa con la Regione Puglia”. In pratica, nonostante il diniego del governatore Michele Emiliano, Total potrà proseguire con il progetto che prevede di stoccare nella raffineria Eni di Taranto il greggio estratto a Tempa Rossa, in Basilicata. Gentiloni ha deliberato a Roma, da solo, senza la presenza (né l’accordo) del governatore della Puglia. Eppure, il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Anna Finocchiaro, nei mesi scorsi aveva assicurato che ci sarebbero state trattative e che si stava lavorando per raggiungere un’intesa con la Regione.
Una delle leggi a cui fa riferimento il comunicato (la 241 del 1990) e che riguarda la Conferenza dei Servizi prevede infatti la necessità di un’intesa forte con le Regioni, ovvero un lungo iter fatto di discussioni, confronti, proposte, tavoli e incontri, per le decisioni su cui gli enti locali hanno voce in capitolo. Prevede almeno 30 giorni tra le varie discussioni e, infine, la presenza delle Regioni nel momento della deliberazioni. Proprio sulla base di questo principio, nel 2016, cinque dei sei quesiti che le regioni No Triv volevano sottoporre a referendum erano stati dichiarati inammissibili dalla Consulta: nella legge di Stabilità erano state accolte le richieste delle Regioni attraverso una serie di emendamenti che rimandavano proprio alla legge 241 del 1990 e, quindi, alla forte intesa con le Regioni. La Consulta decretò che con il maxi-emendamento fossero state soddisfatte le richieste e il referendum si tenne sul solo quesito che fu ritenuto non soddisfatto.
Il problemaè che quella legge, soli sei mesi dopo il referendum sulle Trivelle, è stata modificata e completamente svuotata con un decreto che attuava una delega del Parlamento (del 2015): il governo era stato incaricato di rivedere la disciplina della Conferenza dei Servizi, con l’obiettivo di rendere tutto più veloce e scorrevole. E invece ne ha approfittato per ridurre la forte intesa con e Regioni alla stregua di un mero parere che può anche essere ignorato. “In pratica – spiega Enzo Di Salvatore, il costituzionalista che ha elaborato i quesiti per il referendum sulle Trivelle – il governo dopo il referendum ha cambiato il contenuto dell’articolo.
Quanto è stato accolto dalla legge di Stabilità al tempo rimanda alla norma 241, ma quella norma è stata svuotata di senso. L’accordo con le Regioni No Triv è stato tradito”. E la questione non riguarda solo le trivelle. “Si è creata una situazione in cui le Regioni, ogni volta che sono chiamate in causa su materie di loro competenza, possono contare solo su un’intesa molto indebolita. Non c’è più una trattativa: diventa un mero parere. Non solo si vanifica il risultato che si era ottenuto per evitare il referendum, ma mortifica tutte le regioni e per tutte le materie”.
Decisioni di governo che diventano sempre più intoccabili. L’ultimo colpo è arrivato con il Codice degli appalti che se da un lato ha introdotto nuove regole sul dibattito pubblico (quattro mesi di tempo a tutte le parti interessate da un grande progetto per dire la loro e chiedere modifiche) dall’altro ha deciso che non sia previsto per le opere energetiche. La riforma dovrà essere applicata con un decreto del presidente del Consiglio dei ministri che al momento è all’analisi del Consiglio di Stato e su cui dovrà esprimersi la commissione Ambiente. “Aspettiamo il parere del Consiglio di Stato che dovrebbe arrivare il 7 febbraio – spiega il deputato Pd Ermete Realacci, presidente della Commissione Ambiente alla Camera – poi convocherò la commissione per il parere sul decreto”. L’idea è far reinserire anche le opere energetiche tra i temi su cui avviare il dibattito pubblico.