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 2018  gennaio 29 Lunedì calendario

Il tatuatore in giacca e cravatta: «Una vita tra follie, sesso e vizi»

Il ticchettio delle scarpe sul porfido di un vecchio cortile di via Mercato 16 a Milano. C’è profumo di antiche scorribande in questo anfratto umido e vagamente bohémien. Una sedia dimenticata all’ingresso di una copisteria anni ottanta. Una porta che è un invito a un viaggio e anche un po’ al peccato, e poi arriva lui, Gianmaurizio Fercioni, il gentleman perfetto, eleganza distillata e incedere d’altri tempi, non diresti mai che è il padre e il principe dei tatuatori. Giacca, cappello, gilet, una sigaretta che insegue l’altra in un rito che è fumo, piacere e vita goduta. Mi fa strada nel tempio del tatuaggio, il primo in Italia (Queequeg), sicuramente l’unico dove avrei voluto entrare. Tatuaggi ovunque, il rosso che sbuca dalle labbra di una prostituta procace schizzata su tela. Inchiostro, disegni, foto, frammenti di porti e di un’esistenza divisa tra le scenografie del Parenti e dei più grandi teatri d’Opera e i bassifondi più malfamati. Mi accomodo su una vecchia e confortevole poltrona da dentista (o da barbiere?) e inizia l’intervista o forse la seduta. Il cartello all’ingresso è un monito ai clienti: non si fanno tatuaggi in faccia e sulle mani. 
E perché? 
«Perché poi ci si pente». 
Io mi pentirei di qualunque tatuaggio. Si invecchia, si cambia, la pelle avvizzisce... 
«Se un tatuaggio si fa con coscienza poi diventa il tuo naso, il tuo neo e la macchia della pelle». 
Sono neofita l’avrà capito... 
«Bene, avrai la mente più aperta». 
Lei ne ha tanti di tatuaggi. 
«E tutti un po’sbiaditi ma li amo perché sono parte di me. Ogni tatuaggio è un viaggio e un volto. Bisogna aver navigato per averne uno». 
E lei navigava? 
«Mi imbarcavo per le regate e facevo un tatuaggio in ogni porto. Aveva un senso sportivo. Ne ho uno magnifico sul sedere: “keep kalm”». 
Chissà che storia... 
«Navigavo con un equipaggio scozzese e loro erano abituati a tirarsi su il kilt davanti alla regina in segno di spregio. Non le dico le scritte...». 
Il primo invece? 
«L’ho fatto al porto di Viareggio da un amico marinaio che mi disegnò sulla mano un’ancoretta simbolo di salvezza. La mia famiglia aveva casa là, io allora facevo l’accademia di Belle Arti a Brera e tatuavo i compagni, ci voleva coraggio, le macchine erano rozze, si usavano aghi tenuti insieme da un filo». 
Famiglia di artisti... 
«Mio padre era un uomo di mondo abituato alla navigazione, mio nonno pittore». 
Nostalgia per quegli inizi? 
«Ho visto un mondo di tatuatori che non esiste più... Oggi è un mercato senza senso, i giovani che vogliono fare il mestiere vengono a bottega e mi chiedono quanto si guadagna, non ne vedo uno che abbia un po’ di passione. Una volta c’erano amore e deontologia. Anche chi si faceva un tatuaggio non lo esibiva. Amedeo d’Aosta, Gianni Agnelli, erano tatuati ma non si sapeva. E prima di loro c’era stata la madre di Churchill. E la regina Margherita che si era fatta una farfallina sul polpaccio in uno dei suoi viaggi esotici. Ho lavorato con rudi marinai che si rimboccavano le maniche con discrezione per non mostrare i disegni. Ed Herbert Hoffmann, il grande maestro di Amburgo da cui andai a bottega, aveva tatuato l’80% del corpo ma chiese il permesso di dipingersi le mani alla famiglia perché sapeva che sarebbe diventato un fatto esplicito». 
Grandi professionisti allora. 
«A Londra c’era Bill Jock, ad Amburgo Hoffmann. I tatuatori erano felici di trasmettersi conoscenze e tecniche. Oggi c’è più egoismo e internet ha rovinato tutto». 
E che ambienti frequentavano i tatuatori? 
«Avevano radici nei posti di maggior scambio culturale, nei porti o nei bassifondi. A Venezia c’erano le prostitute che arrivavano dalla Turchia e si tatuavano le coulotte ricamate e i guanti in segno di distacco simbolico dalla loro professione. Ne ho conosciute alcune che avevano tatuato sul pube la scritta “luna park”, altre “gratuit”, solo che il poveretto se ne accorgeva tardi». 
Mai corso rischi? 
«Ero all’Opera di Marsiglia... di giorno sulle scene e la sera nei vicoli malfamati per fare i tatuaggi. Ho vissuto in camere tremende, e ho visto letti intrisi di collant e profumi di basso costo. Mi vedevano arrivare vestito di tutto punto la sera, giacca cravatta, le indosso sempre. Ma tatuavo le loro donne, frequentavo i loro locali, pensavano fossi un mafioso. Naturale che corressi dei rischi». 
E cosa accadde? 
«Frequentavo un bar gestito da due sorelle bellissime. Una sera un cretino mi offre il pastis che non sopporto... perdo la pazienza, prendo il bicchiere e glielo metto davanti scocciato, lui tira fuori un coltello. 
L’ho schivato per miracolo. Anni dopo rivedo il tizio in un vecchio mercato, e mi regala il coltello “questo è tuo da tanto tempo”». 
E i rudi marinai? 
«Avevano un linguaggio tutto loro. Se si tatuavano le ragnatele sui gomiti era segno che passavano troppo tempo al bar coi gomiti sul bancone. Se facevano le ascelle era perché non avevano voglia di issare le vele. Chi stava agli imbarchi li vedeva e già sapeva». 
Significati che si sono persi. 
«E che la gente non conosce più. Un giorno si presenta un bullo imponente, vestito di pelle. Aveva due maschi di rondine tatuati sul petto. Gli dico: sei gay? Lui fa una faccia risentita, per poco non si incazza allora gli spiego che due rondini maschio significano che sei omosessuale, un maschio e una femmina che sei “accasato”, due femmine che sei un porcone. Era così che si faceva tra uomini di mare. Se avevi due rondini maschio, liberi di tutti di usarti per il loro piacere». 
Un tatuaggio che si ricorda? 
«Ero ragazzo all’accademia e c’era questo compagno di buona famiglia. Una sera mi invita ad un ballo e vedo sua madre, elegante, bellissima, tosta, con una piccola àncora tatuata sul polso, mi ha spaccato il cuore». 
Chissà quante richieste bizzarre le fanno i clienti. 
«Chiedono di tatuarsi l’amore della vita oppure i figli o un tradimento. Qualcuno vuole slogan politici ma io li dissuado sempre perché il vento cambia». 
Più clienti donne o uomini? 
«Più donne. Godono di maggior libertà e passionalità... sono meno razionali, più istintive e fantasiose. Non a caso sono madri. Hanno una storia, un’educazione e un dna che le rende uniche. Una moglie si è fatta tatuare dall’inguine in giù la scritta “Non sotto misura”, capisci il poveretto che la seduce? E se si tatuano una ragnatela sul pube è perché non fanno sesso da tempo e si aspettano grosse prestazioni. A una ragazza tradita dal fidanzato ho fatto un cuore spezzato con una catena e la scritta “odio le troie” con il nome della troia sopra». 
È un confessionale il suo... 
«Dove vengono a galla i desideri e i pensieri più nascosti. Un giorno si presentano marito e moglie, due insospettabili. Il marito, un antropologo, tira fuori una mutandina di cotone rosa. “Vede la trasparenza? A me dà fastidio il pelo delle donne ma mi piace vederlo attraverso la mutandina. Puoi tatuarlo?” Dai un’occhiata al bagno se credi, lì ci sono i tatuaggi più sconci». 
Do un’occhiata al bagno. È un tripudio di parti intime tatuate, roseti che guardano draghi alati e adornano pearcing impensabili. E mentre fotografo quelle provocazioni mi giunge la voce di Fercioni... «La provocazione può spuntare dove meno te l’aspetti. A Napoli vidi un barbone che dormiva per terra, sul braccio aveva disegnato “Carmela ti odio” e un coltello con un serpente che trafiggeva la scritta. Semplice ed efficacissimo». 
Ma lei cosa preferisce tatuare? 
«Io tatuo di tutto, dai grattacieli ai pesci, i soggetti si sprecano. Io amo i tatuaggi tradizionali ma devono essere fatti bene. I velieri per esempio. Ne vedo di perfetti ma immobili e statici invece io li dipingo con il vento di bolina in poppa. Un vecchio tatuatore diceva che il tatuaggio è l’abilità michelangelesca di far affiorare sulla pelle pensieri e sentimenti delle persone». 
Nessun pentito mai? 
«Da me mai, perché gli incerti li mando via. Un tatuaggio che non piace comunque si copre. Ma ho aiutato molti dermatologi a cancellarli con il laser. Non è facile, il colore iniettato resta liquido nella pelle». 
Ma allora è vero che c’è una corsa ancora a tatuarsi o siamo in fase di ripensamento? 
«Il tatuaggio non muore mai anzi più crisi c’è più la gente si tatua, non sa a cosa attaccarsi e vede nel tatuaggio qualcosa di definitivo. Peccato ci sia ancora un po’ di diffidenza». 
Milano, così radical chic, è il posto giusto per i tatuatori? 
«Milano è la città che ha accettato i tatuaggi per prima. Ho aperto lo studio nell’74. Presentai domanda in Comune e mi risposero che non c’era la categoria. Mi bastò quella risposta per capire che esistevo». 
La sigaretta tra le mani, il tatuaggio che si intravede sotto il polsino. 
Perché fa questo mestiere? 
«Perché mi diverte ancora e perché amo disegnare. E poi lavoro con mia figlia che è bravissima». 
Ma qui non è Marsiglia... 
«Basta prendere i tram all’alba. Quando esce l’anima di Milano e la vita è un riverbero della notte... È allora che iniziano le storie più belle. Adesso te lo fai un tatuaggio?»