il Giornale, 30 gennaio 2018
«Candy è nata in una prigione, ma solo noi siamo sopravvissuti». Intervista a Beppe Fumagalli
Che qualità fondamentale deve avere un forno da cucina di alta gamma? Semplice: una buona connessione internet.
Se vi sfugge il legame tra il web e i vari tipi di cottura andate su Youtube a vedere i filmati dedicati a Watch and touch, l’ultimo forno prodotto dalla Candy. Lo sportello è in realtà uno schermo che assomiglia a quello dei tablet: con qualche tocco si attiva una telecamera che con un dettaglio da alta definizione trasmette quello che succede all’interno del forno; oppure si può accedere a internet per consultare i siti di cucina e di ricette; le funzionalità possono essere trasferite a un tablet o a uno smartphone, in modo da seguire e gestire la preparazione dei piatti anche da un’altra stanza. Watch and Touch è uno dei cosiddetti elettrodomestici intelligenti, che dialogano tra loro e con il mondo via web, come fossero computer o telefonini. «La prima linea di lavatrici o di frigoriferi connessa non è nemmeno recentissima, l’abbiamo lanciata nell’ottobre del 2014», spiega Beppe Fumagalli, 56 anni, amministratore delegato della Candy. «Ormai sono passati quasi tre anni». Lui e il fratello Aldo, che è maggiore di un anno e ha l’incarico di presidente, rappresentano la terza generazione di Fumagalli al timone dell’azienda. Dal 2015 il gruppo cresce a un ritmo superiore al 10% annuo e in Europa è l’azienda che corre di più. Il fatturato era di poco superiore al miliardo di euro nel 2016, è passato a 1.160 milioni nel 2017. Le ambizioni non sono da poco: superare la boa dei due miliardi entro un lustro. Il tutto in un mercato che cresce appena del due o tre per cento annuo. «Il buon momento sta continuando anche nel 2018», racconta soddisfatto Beppe. E uno dei punti di forza dell’azienda di Brugherio sono, appunto, lavatrici e frigoriferi «intelligenti».
Ma in pratica un elettrodomestico smart, come si dice in inglese, che cosa fa?
«Detto semplicemente, parla e interagisce con smartphone e tablet. Comunica e riceve informazioni nei due sensi. Una lavatrice manda per esempio al telefonino del padrone di casa le indicazioni sul suo stato e riceve le istruzioni necessarie. Lo stesso fanno i frigoriferi. Se per sbaglio qualcuno ha lasciato aperta la porta, sullo smartphone collegato arriva un messaggio di allarme. Idem se va via la luce e c’è il rischio che qualche cosa vada a male. L’elettrodomestico avvisa del rischio che si corre. I frigoriferi fanno anche quello che i tecnici chiamano inventory management: segnalano se ci sono prodotti per cui si avvicina la data di scadenza, oppure se inizia a scarseggiare il latte piuttosto che la carne».
Negli Stati Uniti Amazon si collega ai frigoriferi e procede direttamente all’acquisto dei beni programmati che stanno per finire. In Europa, però, sembriamo più tradizionalisti.
«Quando ci siamo mossi eravamo i primi. E all’inizio un po’ di sorpresa, anche tra i nostri concorrenti, c’è stata. Sotto certi aspetti abbiamo anticipato anche le richieste del consumatore, che spesso ancora non conosce le potenzialità della tecnologia. I dati, comunque parlano: nel settore del lavaggio abbiamo il 9% del mercato europeo. Se lei guarda alle lavatrici smart, quelle, appunto, intelligenti, siamo all’80% e dietro di noi, ma a lunga distanza, ci sono i coreani».
La vostra prima lavatrice venne presentata alla Fiera campionaria di Milano nel 1946. Era un po’ diversa da quelle di cui stiamo parlando.
«A dire la verità era poco più di un pentolone. C’era un foro per far entrare l’acqua calda, delle ventole che agitavano la biancheria, un rubinetto per fare uscire il liquido di lavaggio. Il prototipo era nato subito alla fine della guerra: mio zio Enzo era stato fatto prigioniero dagli americani ed era finito in un campo negli Stati Uniti; mio nonno Eden gli mandò una lettera in cui oltre a informarsi su come stava, gli chiedeva anche se aveva visto qualche macchina per lavare le posate, un’idea che gli era venuta in quel periodo. Aveva una piccola industria meccanica dove faceva di tutto: dalle attrezzature ferroviarie alle macchine per lavare l’uva sultanina usata nei panettoni Motta. Lo so perché mio padre mi raccontava che l’officina era piena di sacchi di uvetta che i bambini si divertivano a rubare. Comunque la risposta di mio zio fu che per le posate non c’era nulla, mentre aveva visto degli aggeggi per lavare i panni. E da lì è iniziato tutto».
La prima svolta per il settore arriva negli anni Cinquanta. E anche lì foste tra i primi.
«Alle macchine vennero aggiunti degli ammortizzatori perché agitando la biancheria le lavatrici saltavano troppo. Poi ci fu la prima macchina automatica: schiacciando un solo tasto partiva e si concludeva tutto il ciclo del lavaggio. E noi puntammo sulle lavatrici a oblò, quelle con il caricamento anteriore, che poi sono diventate lo standard, almeno in Europa. Non siamo stati proprio i primi, ma siamo stati quelli che l’hanno imposto al largo pubblico».
In quel periodo, proprio alla fine degli anni Cinquanta, l’Italia era il primo produttore mondiale di elettrodomestici. Oggi voi siete rimasti l’unico grande gruppo ancora a capitale italiano. Come mai?
«L’Italia ha ceduto presto la proprietà delle sue aziende. Ma spesso i quartieri generali, come quello della Whirlpool, che ha comprato Ignis e Indesit, sono rimasti in Italia. A lungo è stato lo stesso per Electrolux e Zanussi. Le competenze non si sono volatilizzate».
Però il grosso delle fabbriche se n’è andato. Voi stessi su 5mila dipendenti totali, in Italia ne avete solo 800 e per di più avete dichiarato che ci sono degli esuberi».
«Perché crede che solo pochi giorni fa Trump abbia messo dei dazi sugli elettrodomestici fabbricati in Cina e Corea? Anche gli Stati Uniti devono fare i conti, come l’Europa, con la delocalizzazione. Tra i nostri concorrenti chi non è stato abbastanza veloce e non ha guardato al mondo ha finito per pagare un prezzo altissimo. Ci sono Paesi come la Gran Bretagna in cui da vent’anni il problema è stato risolto: la delocalizzazione è compiuta e in Gran Bretagna ormai praticamente non si produce più nulla. Loro l’hanno accettato come un dato di fatto, noi pensiamo che un Paese come il nostro debba porsi il problema se creare le condizioni per mantenere una base industriale».
La strategia tradizionale è quella di trasferire all’estero le fasi di produzione meno ricche, mantenendo in patria quelle a più alto valore aggiunto, come ricerca e sviluppo.
«E infatti noi pensiamo che si possa continuare a lavorare bene qui, e lo pensiamo guardando all’Italia del 2030. Anche se, dico la verità, non mi sembra che si sia fatto nulla per conservare un patrimonio nazionale come l’industria degli elettrodomestici».
Qui emergono i nostri limiti: negli anni Cinquanta per prodotti relativamente poveri il tradizionale sapere artigianale del nostro Paese poteva bastare. Adesso l’asticella scientifica e tecnologica si è alzata enormemente.
«Però vediamo dei segnali positivi. Le faccio l’esempio della Regione Lombardia che ha lanciato un bando per progetti di innovazione e digitalizzazione. Il focus era sui network di aziende, non solo sui grandi gruppi ma anche su piccole e medie imprese che lavorassero insieme. Noi ci siamo dati da fare e nella nostra zona, tra Milano, Bergamo e Brescia abbiamo trovato realtà davvero interessanti».
Anche voi però siete reduci da un periodo tutto lacrime e sangue. Tra il 2011 e il 2015 avete sempre chiuso i bilanci in rosso. Le perdite totali hanno raggiunto i 70 milioni di euro.
«Tenga presente che negli ultimi anni il mercato degli elettrodomestici ha subito un calo, una specie di crollo, che ha raggiunto il 20%. E mentre il mercato si faceva più piccolo e difficile sono arrivati i nuovi concorrenti che lavorano a costi di gran lunga più bassi come turchi e cinesi».
Voi però, voi personalmente, mi riferisco a lei e suo fratello, siete andati controcorrente. Anziché lasciare avete raddoppiato. All’inizio dell’anno scorso avete rilevato il 40% del capitale dell’azienda che era in mano ai vostri cugini Silvano e Maurizio. Così avete risolto il problema della frammentazione proprietaria, tipico delle aziende familiari che passano di generazione in generazione.
«È stato un processo naturale, i nostri cugini, i figli di mio zio Niso, sono un po’ più vecchi di noi e avevano compiuto il loro percorso professionale. Noi avevamo l’orgoglio e la convinzione che questa azienda, creata dalla nostra famiglia, avesse ancora un futuro. Che potessimo fare bene e meglio».
E la quarta generazione di Fumagalli è già pronta?
«Per il momento abbiamo fatto in modo di tenerli lontani. Tra me e mio fratello di figli ne abbiamo sette, ma nessuno lavora in azienda. I miei sono quattro, nessuno ha raggiunto i trent’anni e fanno altre cose: sono entrati nel mondo del lavoro nella fase più difficile di crisi e ristrutturazioni e anche per quello abbiamo preferito che facessero altre esperienze. C’è chi si occupa di marketing nel settore della moda, di finanza nel settore del private equity, una fa la psicologa. Per il momento va benissimo così».
Rispetto ai vostri concorrenti però le differenze in termini di dimensioni sono enormi. Gli americani di Whirlpool hanno un giro d’affari di 20 miliardi di dollari, i cinesi di Haier addirittura di 30. Come potete sperare di sfidarli?
«Non li sfidiamo su tutto e dappertutto. Ci siamo concentrati sui prodotti in cui siamo più forti. Le faccio qualche esempio: abbiamo quote di mercato rilevanti sulle grandi lavatrici, fino a 13 chili di cestello in dimensioni standard. Siamo importanti anche nel settore delle macchine slim, quelle poco profonde con capacità di carico simili alle lavatrici classiche. Poi pensiamo che l’Italia abbia dei punti di forza e su quei punti di forza vogliamo fare leva. Uno è il comparto degli elettrodomestici da incasso, dove possiamo approfittare della forza del design italiano. Un altro è quello delle cucina, e qui è perfino inutile spiegare perché possiamo avere marcia in più».
Le risorse che i colossi possono però mobilitare in termini di ricerca sembrano incommensurabili rispetto alle vostre...
«Qui possiamo aprire il tema della forza delle aziende familiari. Noi abbiamo una storia, la capacità di gestire continue trasformazioni. Abbiamo un Dna, una cultura di prodotto, di innovazione, di rapporto e attenzione per il consumatore. Non siamo bravi in tutto, ma in molte cose sì».
Quanto ai mercati avete concluso qualche mese fa un accordo con un gruppo cinese.
«Il nostro partner si chiama Meiling, è una società quotata, consociata di un colosso nel settore dell’elettronica di consumo. Distribuirà e venderà le lavatrici che produciamo nel nostro stabilimento di Shanghai, uno dei molti che abbiamo in giro per il mondo. Nei prossimi tre anni vogliamo venderne quattro milioni».
I vostri mercati principali restano però la Gran Bretagna e la Francia. L’Italia arriva solo al terzo posto. Visto che siete più inglesi che italiani seguirete con attenzione la Brexit. Su di voi che conseguenze ha avuto?
«Per il momento la situazione si è fatta più difficile: ogni mese monitoriamo la fiducia dei consumatori e abbiamo visto uno drastico calo. L’incertezza complessiva ha anche causato un ridimensionamento dell’attività immobiliare con una riduzione della richiesta di elettrodomestici di nuova installazione. Nel complesso la contrazione del comparto è intorno al 10 per cento. Noi cresciamo ugualmente perché acquistiamo quote di mercato, ma certo, non è la situazione ideale in cui lavorare».
I DAZI
Il presidente Usa ha proposto dei dazi sulle lavatrici cinesi e coreane. «Gli Usa come l’Europa devono fare i conti con il fatto che produrre in certi Paesi costa molto meno»