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 2018  gennaio 29 Lunedì calendario

Corvi, soffiate e giornalisti il buco nero della Cosea

Uno dei dicasteri con incarichi più delicati affidato a laici all’interno della Santa Sede è stato quello della Pontificia commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa (acronimo: Cosea). Francesco la istituì il 18 luglio del 2013. Aveva lo scopo di raccogliere informazioni per lo stesso Pontefice, in cooperazione con il Consiglio dei cardinali per lo studio dei problemi organizzativi ed economici della Santa Sede, per aiutarlo a preparare le giuste riforme delle istituzioni della curia romana, finalizzate «ad una semplificazione e razionalizzazione degli Organismi esistenti e ad una più attenta programmazione delle attività economiche di tutte le Amministrazioni vaticane». Per farlo il dicastero si era avvalso di molte società di consulenza esterne, come la Mc-Kinsey, la Kpmg e la Ernst & Young. Francesco decise di nominare otto membri laici, esperti di «materie giuridiche, economiche, finanziarie e organizzative». L’unico ecclesiastico era monsignor Lucio Angel Vallejo Balda. Fra gli otto anche la pr e lobbista Francesca Immacolata Chaouqui. Il 24 febbraio 2014, il Papa raccogliendo i suggerimenti di Cosea stabilì la Segreteria per l’Economia e il Consiglio per l’Economia con il motu proprio “Fedelis Dispensator et Prudens”, mentre il 22 maggio dello stesso anno chiuse la Commissione stessa. Nel novembre del 2015 la Santa Sede aprì un processo denominato “Vatileaks 2” contro Vallejo Balda, il suo collaboratore Nicola Maio e Chaouqui.
L’accusa era di sottrazione di informazioni riservate, poi divulgate dai due giornalisti Emiliano Fittipaldi e Gianluigi Nuzzi. La sentenza arrivò nel luglio successivo con due condanne – a Vallejo Balda e a Chaoqui – decisamente inferiori alle richieste dell’accusa, non avendo la Corte ravvisato il reato di associazione, e pena sospesa per cinque anni; un’assoluzione, per il collaboratore della Cosea Maio; e due proscioglimenti, i giornalisti Nuzzi e Fittipaldi, per incompetenza territoriale. Più precisamente per «difetto di giurisdizione». «Questo è stato un processo kafkiano per l’accusa – commentò allora Fittipaldi –, ma la sentenza è la dimostrazione di un passo indietro intelligente, il buon giornalismo se viene fatto rispettando regole deontologiche viene riconosciuto».