la Repubblica, 30 gennaio 2018
Bisturi & carrozzina
Il dottore entra in sala operatoria e pare un astronauta che galleggia nella sua navicella. Ma è solo la prima suggestione, la sua tuta lunare è una carrozzina verticale che chiamano esoscheletro e che a lui, tetraplegico che non ha mai voluto gettare la spugna e rinunciare al suo lavoro, permette di operare lavorando in piedi, una posizione inevitabile negli interventi della grande traumatologia, l’anca, il ginocchio, il bacino, quelli in cui ha sempre voluto specializzarsi. In sala operatoria, racconta, i pazienti lo accolgono “con una strana luce negli occhi”, lo studiano con un mix di interesse e di curiosità. Qualcuno osa rompere la barriera dell’imbarazzo e chiede: «Dottore, cosa le è successo?». Nessuno finora ha mostrato diffidenza, nessuno si è mai tirato indietro: «Però mi aspetto che prima o poi succeda», dice Marco Dolfin, chirurgo torinese diventato famoso per la sua storia potente in cui il dolore ha lasciato posto alla tenacia e la vita e la passione hanno quasi annullato l’handicap. Grazie alla sua carrozzina elettronica verticalizzabile che si aziona con un telecomando, Marco Dolfin riesce a operare nelle condizioni ottimali che toccano ai colleghi. Sono passati quattro anni da quando entra così bardato in sala operatoria. Sette da quando tutto è cominciato.
Il giovane medico si era sposato da poco e il rientro dalla luna di miele era coinciso con l’inizio del nuovo lavoro da chirurgo ortopedico. Tutto lasciava immaginare che la sua vita di giovane specializzato torinese con l’ambizione di diventare chirurgo da grandi traumi, fosse in felice ascesa. Un brutto incidente in moto ha di colpo azzerato i sogni di una vita serena, di una carriera che sperava di successo. Dopo i primi momenti in cui il primo a intuire quale sarebbe stato il suo futuro era stato proprio lui, la diagnosi era stata uno choc, lo attendeva una vita da politraumatizzato condannato alla carrozzina: «Ho capito subito. Sentivo tutte le fratture sul mio corpo e appena sveglio ho realizzato che non avevo più sensibilità dalla vita in giù. Tutti i tentativi di nascondermi la realtà erano inutili, sapevo cosa mi aspettava». Rientrare in ospedale da medico sarebbe stato difficile. Impossibile tornare in sala operatoria se non per piccoli interventi sulla mano e sul piede, le sole operazioni che si potevano eseguire restando seduti. Ma a dare la svolta è arrivata prepotente la voglia di vivere. E un incontro fortunato ha offerto l’occasione per ripartire. «Ho fatto delle ricerche on line e ho trovato la storia di Paolo Annibaldi, un chirurgo paraplegico che utilizzava una sedia con due pistoni. Ho provato a contattarlo senza riuscirsi. Poi, per un caso assurdo, durante una vacanza con mia moglie ho conosciuto una signora che mi aveva raccontato che suo figlio era più o meno nelle mie condizioni ma entrava in sala operatoria e lavorava senza problemi. Un mese più tardi sono andato a conoscerlo e ci siamo raccontati. Abbiamo messo a confronto difficoltà e soluzioni». I passi successivi sono stati a Torino, dove Dolfin si è rivolto all’Officina ortopedica: «Insieme ai tecnici abbiamo studiato delle correzioni che potessero andar bene per le mie esigenze. La carrozzina che uso dal 2013 costa seimila euro e ormai è diventata la mia tuta da lavoro».
Il chirurgo opera. L’uomo è del tutto autonomo: va al lavoro in auto, vive una vita il più possibile scandita da gesti di normalità.
E sono arrivate anche le sfide dello sport: Marco gioca a ping pong e dal 2013 si è tesserato con la Federazione Nuoto. Nel 2016 la prova più importante, la partecipazione alle Paralimpiadi di Rio de Janeiro e la medaglia di legno per il quarto classificato, «l’agonismo mi è sempre piaciuto e in acqua il mio corpo sta bene», sorride. Nel 2014 sono nati i suoi gemellini, Mattia e Lorenzo. Una scommessa tutta nuova: «A loro non nascondo nulla, le mie difficoltà le vedono ogni giorno».