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 2018  gennaio 30 Martedì calendario

Cartolina dall’Aquila, la mia città con 99 chiese, 99 piazze e 99 gru

Alle 3,31 del 6 aprile 2009 dormivo a casa mia, a Penne, nella fascia di colline tra l’Appennino abruzzese e il mare. Accanto, mio figlio di dieci anni approfittava del posto lasciato libero dal padre, da qualche giorno in Polonia per lavoro.
Un minuto dopo il letto ha preso a muoversi, qualcosa lo scuoteva da sotto. Appena svegliata, ho saputo subito cos’era, lo avevo già provato qualche volta nella vita, mai tanto forte. Ho tirato via il bambino per un braccio, ci siamo accostati al muro maestro. Il terremoto, gli ho detto.
Le ante degli armadi sbattevano, la ringhiera della scala interna cigolava ritmicamente e di là, in cucina, gli oggetti cadevano dalle mensole e si rompevano. Nel tempo interminabile della scossa stringevo la mano di mio figlio e riuscivo a pensare solo basta, fèrmati, prima che crolli tutto.
Si è fermato. Ho aperto la finestra d’istinto. Fuori come un fragore che si attenuava, dalla montagna al mare. Al balcone della sua camera la nostra vicina in camicia da notte, un palmo sul petto ansimante. Oddio, ripeteva. Le luci accese nel quartiere e voci concitate di gente scesa in strada.
A Penne ci siamo resi conto al mattino che il terremoto ci aveva solo spaventati, era stato gentile con noi. Nessun ferito, pochi danni. Però aveva distrutto L’Aquila. Le prime immagini, con le voragini aperte e le macchine precipitate dentro. La conta dei morti, in continuo aumento. E intanto altre scosse, avevamo paura anche noi, distanti dall’epicentro. Le scuole chiuse, il sonno guasto, sempre pronti a scappare dalle case.
Ho impiegato giorni a rintracciare gli amici aquilani. Non rispondevano al telefono, non sapevo come cercarli. Non sapevo se erano vivi.
L’Aquila è l’unica città che ho sentito mia. Nel 1981 ero matricola alla facoltà di Odontoiatria e Protesi Dentaria, di recente istituzione. Prima avevo sempre abitato in campagna, frequentavo da pendolare il liceo scientifico di Penne. L’Aquila non era una metropoli, eppure era grande per me. Non nascondevo la mia origine, ma cercavo di superarla.
Mi esercitavo a eliminare le inflessioni dialettali, copiavo con una certa diligenza i modi di chi aveva un’educazione più elevata della mia. Una compagna di corso mi disse una volta: tu hai il complesso del tacco infangato.
Sembrava una città chiusa, tra le sue montagne, nel suo clima rigido (undici mesi di freddo e uno di fresco, dicono loro), nella riservatezza degli abitanti. Ma poi si aprivano improvvise le piazzette luminose, i sagrati delle chiese, facciate e portali. S. Maria in Collemaggio, S. Maria Paganica, S. Pietro. E questo leggendario numero novantanove: novantanove le chiese, le piazze, le fontane, i castelli, tutto novantanove. L’Aquila, con una densità di monumenti paragonabile a quella di Siena. Ma più nascosta, più segreta, più gelosa del suo. Però pronta ad accoglierti, dopo una ritrosia iniziale solo apparente.
Al primo incontro si mostravano orsi anche i giovani, ma poi ti ritrovavi preso chissà come nelle loro vite, nei loro posti. La Cantina del Boss, io quasi astemia nell’odore di vino che traspirava pure dall’intonaco. La scalinata di S. Bernardino ricoperta di neve ghiacciata, in discesa a capofitto con l’Austin Allegro (ribattezzata Tristello) di Roberto Manilla. Cosí, tanto per vedere come si sarebbe conclusa giù in fondo la serie dei testa-coda. Mi sono scoperta un giorno a parlare con la cadenza caratteristica della loro lingua piena di U e misteri. (…) Oggi L’Aquila è considerata il più grande cantiere d’Europa. Si parla molto della smart city che diventerà. In centro un concerto di martelli pneumatici, mole, camion che trasportano materiali edili. Polvere dappertutto. Molti palazzi finiti, ma non ancora riabitati, alcune attività riaperte, il Boss già poco dopo la scossa.
L’amico che mi ha accompagnato nell’ultima visita ha detto: L’Aquila, novantanove chiese, novantanove piazze e novantanove gru. Abbiamo riso un po’ amaro. Ho chiesto se la gente tornerà, non mi ha risposto. Di quello che gli aquilani si portano dentro nessuno parla.