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 2018  gennaio 30 Martedì calendario

A proposito di Henry (James)

Quando era bambino, Henry James non giocava, non parlava, non studiava.
Camminava, esercitando il suo smisurato e molecolare spirito di osservazione: tutto, attorno a lui, vibrava: le sensazioni giungevano da ogni parte; ed egli le captava, anche se non riusciva a coglierle con precisione. Alla fine, tutto diventava fantasma. A quattordici anni si ammalò di una gravissima febbre tifoide, rimanendo a letto per mesi. Poi soffrì, come scrisse, “di una ferita orribile alla schiena, sebbene oscura”. La mente fantasticava; e non avrebbe mai smesso di fantasticare. In fondo all’anima era androgino. Un dottore disse che possedeva una bassissima componente sessuale; ed egli decise di non sposarsi mai, sebbene nei romanzi e racconti lasciasse trasparire un intenso mondo erotico. Lesse moltissimo: dapprima i Racconti da Shakespeare di Charles Lamb, Ruskin, i classici da Virgilio a Racine; Balzac, al quale pensò di assomigliare più del vero. “Egli non visse – se non nella fantasia” (come lui). Scoprì Sainte-Beuve, a cui dedicò una specie di culto: amò molto Hawthorne. A Parigi conobbe Turgenev che giudicò “il più grande romanziere contemporaneo”. Una domenica del dicembre 1875 Turgenev lo condusse a casa di Flaubert: alto, grave e silenzioso, egli recitò gueulant delle poesie di Théophile Gautier. James ammirò un capolavoro in Madame Bovary: parlava male di Salammbô e dell’Éducation Sentimentale; e alla fine accusò ingiustamente Flaubert di essere “freddo” e di non avere intelligenza né immaginazione. Amò Robert Louis Stevenson, il suo opposto, e soffrì terribilmente quando morì a Samoa. Il 26 dicembre 1894 scrisse alla vedova una lettera meravigliosa, avanzando nel dolore sino a ferire e a ferirsi, con dolcezza, tenerezza e con tatto squisito. Dopo la sua morte, il mondo gli sembrò povero e desolato; e non aveva più voglia “di fare nulla, di progettare, di scrivere senza il suo compagno in spirito”.
Adorava viaggiare: l’editore Bompiani ha pubblicato In viaggio (a cura di Michael Anesko e Maurizio Bartocci: pagine 380 euro 15), che raccoglie i suoi articoli di viaggio dopo il 1870. Come Sterne, era “un turista sentimentale”: avrebbe voluto vivere viaggiando, con un’“affabile curiosità verso tutte le sensazioni”. Sapeva di essere americano: “posso rientrare in America per morirvi – ma mai, mai per viverci”. Amava Parigi: camminava per gli Champs Elysées, per rue de Seine, fino al Luxembourg e al Louvre. Coltivava la Parigi del secondo Impero: Napoleone III e l’imperatrice Eugenia. «I francesi – disse – sono il popolo del mondo che si fa più fatica a conoscere». Con il battello discese la Senna fino a Rouen, Honfleur e Étretat – i luoghi di Baudelaire (che conosceva poco) e di Flaubert.
Scese in Italia attraverso il san Gottardo e il Sempione: ammirò l’Ultima cena di Leonardo e la Chartreuse de Parme. Fu a Genova, Pisa, Lucca, Perugia, Siena: affittò un appartamento a piazza Santa Maria Novella 1 a Firenze. A Roma scese all’Hotel de Russie e poi in un piccolo appartamento a via del Corso: ma il suo vero luogo era il Cimitero degli Inglesi, dove viveva nel passato e nel presente, “stupefatto e febbricitante di gioia”. Quando fu a Pisa, ne scrisse con parole che ricordano quelle di Leopardi. Se avesse perso – diceva – la salute, i denari, gli amici, il destino, avrebbe vissuto a Pisa: il suo silenzio e la sua tranquillità lo incantavano; era il luogo ideale per prepararsi alla morte. Non si stancò mai di ricordare Venezia: desiderava abbracciarla e accarezzarla e il suo desiderio non diminuiva mai. Si soffermava a lungo a piazza San Marco, questo gran salone mondano col pavimento levigato e il soffitto azzurro. Tornò a Londra, dove affittò un piccolo appartamento, che gli parve “una luce nera e impersonale nella tenebra della città”. Londra era, per lui, brutta, polverosa, cupa, più priva di grazia di qualsiasi altra città. Si sentiva straniero. Ma presto si innamorò.
“Sono così innamorato di Londra, che posso permettermi il malumore, e Londra è una città così meravigliosa che può permettersi di venire malamata”.
Aveva per lei una tenerezza filiale.
Firmò un contratto di affitto di ventun anni a The Vere Gardens, presso Kensington Avenue. Venne ammesso al Reform Club, il club dei liberali, e al Cosmopolitan, una specie di club “di discussioni molto chiuse”, dove incontrò Trollope, Gladstone, Robert Browning, Walter Pater e Whistler. La regina Vittoria aveva uno “sguardo di genio”.
Per diventare completamente inglese, fece un ultimo passo.
Affittò una casa a Rye, nel Sussex: Lamb House, dove dormì la prima volta il 28 giugno 1898. Sui muri c’era un quadro di Burne-Jones, una fotografia di Daudet, un piccolo ritratto di Flaubert, delle vedute di Roma di Piranesi, ritratti di famiglia e una “piccola, squisita collezione di accessori di teatro”.
Per un anno e mezzo si adattò alla vita provinciale di Rye, conducendo un’esistenza regolare, insieme a Max, un piccolo fox terrier. Aveva una grande amicizia per un giovane scultore di Boston di origini norvegesi, Hendrik Andersen. Era “inesprimibilmente felice” di vederlo: lo teneva tra le braccia e gli accarezzava le spalle.
Aveva il senso di apparire. Era quasi calvo, quasi obeso: ora portava un berretto a visiera, ora un cappello di feltro, e sempre vestiti vistosamente colorati. Gli occhi erano “profondi e meravigliosi”: portava al dito un anello con un topazio. La cosa essenziale, per lui, era parlare: parlare insaziabilmente; aggiungendo, commentando, toccando e ritoccando ciò che aveva appena detto, ricordando cose minime e inutili, non fermandosi mai. A volte balbettava. Non scriveva più a mano: forse aveva paura del contatto con le cose; dettava all’intelligentissima Miss Theodora Bosanquet (che ci ha lasciato dei bellissimi ricordi).
Nel 1909 bruciò, in un grande rogo, come Gogol’, le sue lettere.
Il 2 dicembre 1915, Miss Bosanquet lo trovò a terra: «ho avuto – disse – un attacco cardiaco»; e aggiunse di aver sentito nella camera una voce, che non era la sua, dire chiaramente: «eccola, finalmente, la cosa distinta»: come nel Giro di vite. Quando scoppiò la guerra, diventò cittadino britannico. Fu invitato a pranzo dalla moglie del primo ministro, la signora Asquith, conoscendo Winston Churchill, primo lord dell’ammiragliato, il quale non ebbe simpatia per lui, sebbene nella seconda guerra mondiale ripetesse le parole di James: “gli inglesi, questo popolo adattabile e intrepido”.
Il 10 dicembre 1915 Miss Bosanquet scrisse: “questa mattina, il suo spirito è oscurato”. James non sapeva dove fosse: pensava di essere in un luogo straniero, lontano da Londra, forse in California. Cercò alcuni manoscritti: pensò di averli mandati in Irlanda; forse tutto, attorno a lui, era una cospirazione segreta. “Il luogo dove mi trovo è la mescolanza più bizzarra di Edimburgo, Dublino, New York e di un altro luogo che ignoro”. Gli occhi – osservò Miss Bosanquet – avevano un’espressione tesa ed inquieta – senza la minima luce di intelligenza. Chiese una matita e la mano mimò il movimento della scrittura. Dettò a Miss Bosanquet una lettera di Napoleone Bonaparte a una sorella. Aveva l’aria di un bambino stanco.
Immaginava di viaggiare e visitare città straniere, come aveva fatto per tutta la vita. Spesso fingeva di scrivere. Il 24 febbraio 1916 parlò di un momento di “orrore e terrore”.
Il 27 cercò invano di parlare. Il 28 rifiutò il cibo. Il medico disse: «è la fine». Alle sei del pomeriggio sospirò – tre sospiri a lunghi intervalli, di cui l’ultimo molto debole. La nipote commentò: «È partito». Non c’era un’ombra sul suo viso, né un muscolo contratto.
Le ceneri furono sepolte, in America, accanto alle tombe della madre e della sorella.