la Repubblica, 30 gennaio 2018
Petrolio, la finanza scommette sulla corsa verso gli 80 dollari
Milano Dare indicazioni sul prezzo del greggio è sempre un esercizio pericoloso. Soprattutto dopo che le quotazioni hanno viaggiato a lungo in una medesima direzione: ma nonostante la corsa degli ultimi due anni, il mercato pensa che ci sia ancora spazio per la crescita e fissa la nuova asticella a 80 dollari. Lo rivelano non solo i report che vengono pubblicati quotidianamente, da fondi di investimento come Blackstone a banche d’affari come Citigroup (giusto per citare i più recenti), ma anche perché la finanza ci crede. Come ha rivelato l’agenzia Bloomberg, gli hedge fund stanno scommettendo sempre più forte sul petrolio e gli investimenti complessivi hanno raggiunto livelli senza precedenti. Costringendo gli operatori del settore a cautelarsi: guardando il Cot, il report settimanale rilasciato negli Usa dalla Commodity Futures Trading Commission in cui si fa il punto sugli investimenti in materie prime, si scopre che i fondi stanno investendo nella stragrande maggioranza sul rialzo del greggio, mentre i petrolieri “veri” sono attivi solo sulle opzioni al ribasso. Facendo venire il sospetto agli analisti che non si tratti solo di coperture. Del resto, il nuovo rimbalzo del greggio è stato uno degli argomenti di discussione a Davos. Ne ha parlato, Majid Jafar l’amministratore delegato di Crescent Petroleum, una delle principali società indipendenti del settore con sede negli Emirati Arabi Uniti. A suo dire il prossimo strappo dei prezzi verso l’alto ha una ragione geopolitica e risponde al nome di Venezuela. Nonostante il rialzo del greggio abbia portato qualche vantaggio nelle disastrate casse dello stato sudamericano, è anche vero che il crollo degli ultimi due anni le aveva svuotate. E, soprattutto, aveva cancellato milioni di dollari in investimenti per ammodernare i pozzi e sviluppare nuove estrazioni. Morale: in Venezuela, nel corso dell’ultimo anno, la produzione di greggio è crollata dal 30%, a 1,6 milioni di barili al giorno.
Un parere condiviso solo in parte dal numero uno di Eni Claudio Descalzi: il manager ritiene che i prezzi abbiano corso abbastanza e che si manterranno sui livelli attuali per tutto l’anno, ma allo stesso tempo avverte che saranno proprio i fattori geopolitici a condizionare l’andamento delle quotazioni. In una intervista a Bloomberg, Descalzi ha pronosticato il barile a 70 dollari per i prossimi due mesi e una media di prezzi tra i 60 e i 65 dollari per l’anno in corso. Potranno esserci sbalzi nel caso di problemi agli approvvigionamenti da paesi politicamente più instabili come la Nigeria, la Libia o lo stesso Venezuela. Mentre lo scontro tra i produttori Opec, guidati dall’Arabia Saudita, e gli Stati Uniti non dovrebbe più condizionare le quotazioni perché si è giunti a un equilibrio: secondo Descalzi, l’aumento di produzione Usa – grazie al boom dello shale oil, il petrolio estratto dalle rocce – è bilanciato dalla riduzione delle quote deciso dai membri Opec e dalla Russia.
In realtà, il grande fermento del mercato americano del petrolio “non convenzionale” sta rivoluzionando l’industria estrattiva. I sauditi avevano aumentato la produzione a partire dal 2016 proprio per far crollare il prezzo del barile e mettere fuorigioco i produttori Usa. Una manovra boomerang: i prezzi sono scesi, rischiando di mandare in bancarotta le casse pubbliche di mezzo Medio Oriente, ma i produttori Usa – dopo un primo periodo costellato di fallimenti – sono tornati più forti di prima. Ottenendo due risultati: gli Usa si sono trasformati in esportatori netti e nel corso del 2018 diventeranno il primo paese al mondo per produzione, superando l’Arabia Saudita. Lo prevede l’Agenzia Internazionale per l’Energia: e a quel punto, per i prezzi potrebbero aprirsi nuovi scenari. Non per nulla, ieri, il prezzo del Wti è sceso dello 0,9% proprio sui timori di un aumento della produzione americana.