Corriere della Sera, 30 gennaio 2018
Dori Ghezzi: «Valzer per un amore» segnò la nascita della nostra passione
Quali canzoni sono legate alla storia d’amore con Fabrizio?
«Una in particolare – dice Dori Ghezzi, moglie di De André nei suoi ultimi dieci anni —. Il Valzer per un amore costruita sul Valzer campestre di Gino Marinuzzi. Mentre Fabrizio veniva al mondo (fu partorito a casa) il padre aveva messo sul giradischi a tutto volume questa composizione. Era il suo modo di festeggiare il nuovo arrivato. Il mio primo incontro con Fabrizio ebbe luogo negli studi milanesi della Fonorama di via Barletta a Milano dove lui stava registrando l’album Canzoni. Lui mi avvicinò durante una pausa e mi invitò nella sala di incisione dove aveva appena messo le parole su quella musica intitolandola Valzer per un amore. Il testo invita una donna a non attendere la vecchiaia per donarsi all’amore ed era un invito elegante e nello stesso tempo esplicito. Con me ha funzionato. La musica della nascita di Fabrizio che diventa complice, tanto tempo dopo, di un amore che nasce, mi gratificò. Ancora mi commuove».
Il suo rapporto col repertorio di Fabrizio?
«Le mie preferenze vanno alle canzoni meno popolari, quelle che io chiamo sommerse. Sono le più belle».
Faccia un esempio?
«Sidún in Crêuza de mä : l’immagine struggente di quel bambino schiacciato da un carro armato in braccio a un genitore nella guerra fra palestinesi e israeliani. Era un racconto che aveva un valore universale: tutte le guerre vedono i bambini soffocati».
Ci sono canzoni dedicate a lei?
«Sicuramente Hotel Supramonte, scritta all’indomani del rapimento. Ma lui mi disse dall’inizio, chiaro e tondo: “Nelle mie canzoni io trasformo la gente, invece tu devi sempre restare quella che sei”. Non mi sono mai sentita una Musa. Quel che mi interessava di più era un rapporto normale nella quotidianità. A dire il vero c’è una canzone che lui ammette di avermi dedicato. Ma non mi disse mai quale».
Cosa la affascina di più nella scrittura di Fabrizio?
«La capacità di raccontare verità agghiaccianti col gusto della metafora. Come quelle ancore che hanno perso la scommessa e gli artigli in Parlando dell’affondamento della London Valour, naufragio che la gente vive come uno spettacolo circense. Il suo era un processo creativo ispirato. Lui era curioso. Aveva fame di conoscenza. I grandi imparano da altri grandi. E hanno questa umiltà».
Il processo creativo di Fa brizio era faticoso?
«Sì lui invadeva il letto con libri, posacenere. Era impossibile dormire assieme, avevamo orari troppo diversi. Ma questo non influì sui nostri rapporti».
Canzoni che ancora la commuovono?
«Ho visto Nina Volare scritta con Ivano Fossati per l’album Anime salve. Mi piace perché parla della sua infanzia. Il tormentone “mastica e sputa” e tutto il brano nascono da un viaggio di Ivano e Fabrizio partiti alla ventura in giro per l’Italia nei paesini e nei posti dimenticati a parlare con la gente. Gli apicoltori in certe zone separavano il miele dalla cera con la bocca».
Altra canzone d’amore della sua classifica personale?
«Tutti si aspettano che io risponda Amore che viene amore che vai. Io invece preferisco La canzone dell’amore perduto. Quasi un melodramma di inspiegabile magia semplice e lineare».
Il messaggio di Fabrizio?
«Nascosto nei versi. Lui non indica soluzioni, non è mai giudicante o moralista. Racconta cose che il suo stile e la sua timbrica rendono subito importanti e lascia a chi ascolta a trarre le conclusioni. E sa scherzare anche sulla morte come nel Testamento».
L’esperienza con la PFM?
«Fu fondamentale. Lui avrebbe potuto tenere il palco anche con una scena illuminata solo dalla fioca luce di una lampadina. Ma lì capì cos’era davvero un grande concerto. La voglia di cantare per gli altri però gli venne soprattutto accompagnandomi nei miei spettacoli».
Altre virtù di Fabrizio?
«Non si ripeteva mai. Ogni disco è diverso dall’altro. E prima di darlo alle stampe pensava e ripensava e non lo rilasciava se non quando era convinto. All’inizio i concerti lo spaventavano e andò in scena più per considerazioni di carattere finanziario che altro. Poi ci prese gusto. La vicinanza con la gente lo caricava. La gente lo aiutava a capire il mondo. Il suo motto si trova in un verso del Cantico dei drogati “Tu che m’ascolti insegnami”. Un macigno».
L’unicità di Fabrizio?
«Apriva bocca e ti inchiodava con una voce da Dio, una timbrica unica e miracolosa. Il suo manifesto più importante è a mio avviso Preghiera in gennaio».
Il testamento di De André?
«Ne ha fatti tre: uno giocoso nella canzone omonima composta da giovane, poi Il testamento di Tito nella Buona Novella, e infine quello definitivo in Smisurata preghiera. Lui è sempre riuscito a sorprendere, fare quello che nessuno si aspettava, spiazzare il suo pubblico, come uscire con un disco sui Vangeli apocrifi in pieno Sessantotto».