Corriere della Sera, 30 gennaio 2018
L’influenza censurata
Nella serie tv inglese Downton Abbey ben tre personaggi di primo piano nell’aprile del 1919 si ammalano improvvisamente e uno di loro muore. Che cosa accadde nei mesi che precedettero quella primavera? In un certo senso, la Grande guerra, dopo la fine dello scontro armato, si protrasse per qualche tempo e produsse altri milioni di vittime per l’influenza spagnola. Anzi, i morti di «spagnola» furono sicuramente assai più di quelli provocati dal conflitto stesso. Tra il primo caso di cui se ne ebbe notizia certa, il 4 marzo 1918, e l’ultimo, nel marzo del 1920, la pandemia uccise tra 50 e 100 milioni di persone (45 anni fa la stima di Richard Collier era stata di «appena» 20 milioni), vale a dire tra il 2,5% e il 5% della popolazione dell’orbe terracqueo. Per di più in ogni angolo, anche il più remoto, della Terra. «Fu la più grande ondata di morti dai tempi della peste nera», scrive Laura Spinney in 1918. L’influenza spagnola. L’epidemia che cambiò il mondo, che la Marsilio manda adesso in libreria, nella traduzione di Anita Taroni e Stefano Travagli. La maggior parte di queste morti si verificò nel corso di 13 settimane, tra la metà di settembre e la metà di dicembre del 1918. E alla diffusione della malattia contribuirono non poco i festeggiamenti, proprio in quell’autunno, per la pace riconquistata, con milioni di persone che si abbracciavano e si baciavano per le strade.
WorldCat, il più grande catalogo bibliografico online, elenca 80 mila libri sulla Prima guerra mondiale (in più di 40 lingue) ma solo 400 sull’influenza spagnola (in cinque lingue). In generale i libri di storia dedicano alla «spagnola» poco più di qualche riga. Nella maggior parte dei casi, un’asciutta nota a piè di pagina. E pensare che, scrive Laura Spinney, quella malattia ha consistentemente «influito sul corso della Prima guerra mondiale» e, «verosimilmente ha contribuito allo scoppio della Seconda» (per aver – come ha scritto lo storico John Barry in The Great Influenza – messo fuori gioco il presidente americano Woodrow Wilson nel 1919 in una fase delicatissima della conferenza di pace); ha «avvicinato l’India all’indipendenza e il Sudafrica all’apartheid»; ha spinto la Svizzera «sull’orlo della guerra civile»; ha «stimolato la nascita dell’assistenza sanitaria universale e della medicina alternativa», «l’amore per le attività all’aria aperta e la passione per lo sport»; ed è «probabilmente responsabile – almeno in parte – dell’ossessione degli artisti del XX secolo per le infinite fragilità del corpo umano». Non può neanche essere messo in discussione, secondo l’autrice, che la pandemia del 1918 abbia imposto «un’accelerazione ai cambiamenti avvenuti nella prima metà del Novecento» e abbia contribuito «a dare forma al mondo che conosciamo».
Per strano che possa apparire le prime tracce di questo malanno non si trovano in Spagna, bensì negli Stati Uniti. Dove? La mattina del 4 marzo 1918 il cuoco militare Albert Gitchell si presentò all’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con «mal di gola, febbre e mal di testa». All’ora di pranzo l’infermeria si trovò a gestire più di cento casi simili, e nelle settimane successive il numero dei malati «crebbe a tal punto che il capo ufficiale medico del campo fu costretto a requisire un hangar per sistemarli tutti». Metaforicamente parlando, afferma la Spinney, «cinquecento altri milioni di persone seguirono Albert Gitchell in infermeria». Gli Stati Uniti erano entrati in guerra undici mesi prima: nell’autunno del 1917 «decine di migliaia di ragazzi provenienti dalle zone rurali del Paese raggiunsero i diversi campi di addestramento dell’esercito per unirsi alle American Expeditionary Forces (Aef), il contingente militare diretto in Europa sotto la guida del generale John “Black Jack” Pershing». Nel marzo 1918 fu l’episodio di Camp Funston, del quale abbiamo detto. In aprile, l’influenza era già epidemica nel Midwest, nelle città della costa orientale dove i soldati si imbarcavano e nei porti francesi in cui sbarcavano. A metà aprile raggiunse le trincee del fronte occidentale. Di lì si estese a tutta la Francia, alla Gran Bretagna, all’Italia e, per ultima, alla Spagna dove, però, nel giro di tre giorni furono contagiati due terzi dei madrileni, tra cui il re, il primo ministro e quasi tutti i membri del governo. Forse fu per questo che l’influenza venne ribattezzata dal nome del Paese di Cervantes.
Ma sicuramente fu anche per altre circostanze. Gli spagnoli, scrive Laura Spinney, non sapevano che «nei Paesi belligeranti le notizie relative all’influenza erano sottoposte a censura così da non demoralizzare la popolazione (i medici dell’esercito francese vi si riferivano in modo criptico come maladie onze, malattia undici)». Tant’è che l’Ispettore generale della Sanità, Martin Salazar, annunciò all’Accademia reale medica di Madrid di «non aver ricevuto notizie» della presenza di quella malattia nel resto d’Europa.
Nella capitale spagnola era in cartellone nel maggio del 1918 una commedia che conteneva una canzonetta destinata ad essere immediatamente assai popolare, Il soldato napoletano e fu con quel nome che venne ribattezzato il male. Un importante medico, Luis Ibarra, ricondusse gli effetti del «soldato napoletano» a un «accumulo di impurità nel sangue dovuto all’incontinenza sessuale»: tutta colpa degli «eccessi di libidine» che avrebbero causato «uno squilibrio degli umori». Ma le commissioni sanitarie pubbliche intuirono che la malattia si diffondeva nei luoghi affollati e vietarono gli assembramenti. Il vescovo di Zamora, Alvaro y Ballano, la prese come una disposizione anticlericale, ribadì che la malattia era dovuta «ai nostri peccati, alla nostra ingratitudine, a causa dei quali si è abbattuto su di noi il braccio vendicatore della giustizia eterna» e convocò un gran numero di fedeli per somministrar loro la comunione nella chiesa di San Esteban. Il popolo accorse (anche se per fortuna non nelle quantità sperate) con in testa il sindaco e altri notabili. Ballano descrisse quella giornata come «una delle vittorie più significative mai ottenute dal cattolicesimo». Il tasso di mortalità, a Zamora, crebbe a dismisura. Ma la folla dei fedeli continuò ad accorrere, adesso sì sempre più numerosa. L’epidemia a questo punto fu inarrestabile. Le autorità provinciali furono costrette a prendere la decisione di non far più suonare le campane come tributo ai defunti, dal momento che «suonando di continuo spaventavano la gente». Poiché, poi, ai tempi della Grande guerra, la Spagna era un Paese neutrale, la stampa non subiva nessuna censura: fu per questo che i giornali poterono diffondere puntualmente le notizie relative all’epidemia provocata dal «passaggio del soldato napoletano». Francesi, inglesi e americani «ignorando che la malattia era nei loro Paesi da molto più tempo, con la complicità dei loro governi cominciarono a chiamarla “influenza spagnola”». Dopodiché tutti i Paesi che erano lontani dal teatro della guerra accusarono qualcun altro di essere all’origine della malattia. In Senegal fu l’«influenza brasiliana». In Brasile, la «tedesca». I danesi lo chiamarono il «male del Sud». I polacchi la «malattia bolscevica». I persiani diedero la colpa ai britannici. A Tokyo misero sotto accusa i lottatori: poiché il primo focolaio si sviluppò ad un torneo di lotta giapponese, la soprannominarono «influenza del sumo». I medici tedeschi ricevettero l’ordine di minimizzare, attribuendola a malati immaginari e la chiamarono «la pseudoinfluenza». Poi quando ci si rese conto che non si trattava di epidemie locali ma di un’unica pandemia globale, fu adottato il nome che le avevano dato i Paesi vincitori della guerra e la si chiamò «spagnola». «Un falso storico rimasto scolpito nella pietra», sentenzia la Spinney.
Nel corso della primavera del 1918 si ammalarono circa tre quarti delle truppe francesi e più della metà di quelle britanniche. In maggio la febbre entrò in Germania, da Breslavia (l’attuale Wroclaw polacca) e in brevissimo tempo mise fuori combattimento 900 mila uomini. Di lì, tramite prigionieri rimpatriati, si diffuse in Russia, dove uccise il braccio destro di Lenin, Jakov Sverdlov. Il 1° giugno il «New York Times» titolava allarmato: Strana epidemia dilaga nel Nord della Cina. L’India fu infine il Paese più colpito per numero di morti: si ammalò anche il Mahatma Gandhi che restò fuori combattimento in uno dei momenti più critici della lotta per l’indipendenza. A metà giugno il morbo era in Giappone e, a fine mese, in Australia. In settembre fu la volta del Sudamerica (un battello inglese l’aveva portata a Recife, nel Nord del Brasile).
Celebre fu, in quello stesso settembre, il caso di una delle navi, all’epoca più grandi del mondo, il Leviathan, che partì per la Francia da Hoboken in New Jersey con a bordo novemila soldati: all’arrivo a Brest, una settimana dopo, i malati erano circa duemila e si erano avuti novanta decessi; negli scompartimenti del «Leviathan», racconta la Spinney, «lo spazio tra i letti a castello era così ridotto che le infermiere non potevano evitare di lasciare le loro impronte insanguinate tra l’uno e l’altro»; con i letti più alti inutilizzabili dai malati, «gli uomini, semicoscienti, furono sistemati sui ponti, che presto diventarono scivolosissimi a causa del sangue e del vomito». Quando approdò nel porto della Bretagna, il Leviathan appariva una «nave della morte».
Il 9 novembre del 1918 il Kaiser Guglielmo di Germania abdicò e pochi giorni dopo le strade di Parigi si riempirono di una folla festante che urlava: «A mort Guillaume!». L’esultanza si arrestò solo al cospetto di un corteo funebre diretto verso il cimitero di Père Lachaise che seguiva la bara di un altro Guillaume: Apollinaire. L’autore di Le undicimila verghe era morto di «spagnola», così come toccò in sorte al ventottenne Egon Schiele, al cinquantaseienne Max Weber (contagiato con ogni probabilità quando era stato tra i delegati della Germania a Versailles), all’autore di Cyrano de Bergerac Edmond Rostand. Molti però sopravvissero, anche se, quando contrassero il male, ebbero l’impressione di vivere i loro ultimi giorni. A fine luglio un ufficiale dell’esercito turco, destinato a segnare la vita del suo Paese, Mustafà Kemal, si ammalò a Vienna. Franklin D. Roosevelt, all’epoca viceministro della Marina, fu contagiato su una nave per il trasporto delle truppe che viaggiava dalla Francia a New York e, all’arrivo, dovette essere accompagnato a terra su una barella. Fu contagiata anche la scrittrice statunitense Katherine Anne Porter. Così come il tubercolotico Dashiell Hammett, Ernest Hemingway, John Dos Passos che, come molti altri, si ammalò su una nave per il trasporto delle truppe durante la traversata dell’Atlantico. Fu contagiato anche D.H. Lawrence, che descrisse i disturbi nella figura del guardacaccia Mellors nell’ Amante di Lady Chatterley.
A Sigmund Freud morì di spagnola la figlia Sophie, incinta del terzo bambino. Franz Kafka raccontò d’aver contratto la malattia «da suddito della monarchia asburgica» e d’esserne poi riemerso «da cittadino della democrazia ceca» (considerò l’accaduto «un po’ comico»). Gustav Landauer, politico socialista che in vita sua desiderava soltanto «prender parte alla rivoluzione in Germania», e Maximilian von Baden, ultimo cancelliere dell’Impero tedesco, si svegliarono dalla febbre e scoprirono di essersi «persi il momento più bello». Il filosofo sionista Martin Buber «si ammalò proprio quando gli ebrei europei avevano visto in lui la guida che poteva indicare se la Palestina era davvero la patria che avevano sognato». A Varsavia si ammalò Jan Steczkowski, capo del governo temporaneo messo in piedi nei territori polacchi occupati con la benedizione della Germania e dell’Impero austro-ungarico. In India fu, secondo lo storico inglese A.J.P. Taylor, a causa della spagnola, cioè delle tensioni provocate nel Paese dalla diffusione del morbo, che il 13 aprile 1919 il generale di brigata Reginald Dyer ad Amristar ordinò alle truppe di aprire il fuoco sulla folla disarmata uccidendo, secondo le fonti ufficiali, quasi 400 persone (probabilmente più di mille). A Londra fu colpito Ezra Pound. A Dublino, la patriota irlandese Maud Gonne, scarcerata da una prigione inglese, tornò per riprendere possesso della casa che aveva prestato a W.B. Yeats (di cui era stata la musa); ma Yeats non volle aver contatti con lei perché – diceva il poeta – non voleva che fosse contagiata da sua moglie che aveva contratto il male. Maud Gonne non credette all’autore di La rosa segreta e da quel momento lo subissò di lettere rigonfie di odio.
Ma, se è vero tutto questo (ed è vero), perché la «spagnola» ha avuto un posto così ridotto nei libri di storia? Le guerre, «con le loro dichiarazioni, le loro tregue, i loro atti di incredibile coraggio», spiega Laura Spinney, si inseriscono facilmente nella struttura narrativa della storia; «una pandemia influenzale, invece, non ha un inizio o una fine precisa, e nessun eroe definito». Provò a reagire, ricorda l’autrice, il ministro della guerra francese che cercò di creare alcuni «eroi» di questa epidemia consegnando una speciale «medaglia per l’epidemia» a migliaia di civili e militari che avevano «mostrato particolare dedizione nella lotta contro la malattia». Ma non funzionò. Tant’è che un elenco di quei decorati è a tutt’oggi irrintracciabile.