Corriere della Sera, 30 gennaio 2018
I 600 miliardi l’anno nascosti al Fisco
Distratti dall’arrivo di Donald Trump, i manager presenti all’ultimo Forum di Davos andrebbero perdonati nel caso si fossero persi un dettaglio: vale 627 miliardi di euro la base imponibile nascosta solo nel 2015 da poche grandi multinazionali al fisco di Paesi come Germania, Francia e Italia (e vari altri). In quell’anno – uno fra i molti nei quali gli stessi fenomeni si ripetono – è di duecento miliardi di euro il gettito sottratto ai governi attraverso la rete dei paradisi fiscali. Per compensare l’ammanco, hanno dunque dovuto versare più tasse i normali lavoratori dipendenti o autonomi, i pensionati e anche – attraverso l’Iva sui beni di consumo – le persone i cui redditi sono così bassi da restare al di sotto delle soglie tassabili.
Il danno per l’ItaliaPer l’Italia, il trasferimento artificiale all’estero dei ricavi alcune grandi multinazionali ha prodotto nel 2015 un’erosione di quasi un quarto della base imponibile del prelievo sulle società: 7,4 miliardi di euro in tutto, una perdita di 0,5% del reddito nazionale sul 2015 che con ogni probabilità si sta riproducendo ogni anno. In media, i Paesi dell’Unione Europea perdono così circa un quinto delle entrate alle quali avrebbero titolo dalle imprese. Ma non va malamente allo stesso modo per tutti. I tre più grandi paradisi fiscali per le grandissime imprese non sono infatti annidati in qualche isola dei Caraibi o dell’Oceano Pacifico. Al contrario, prosperano in gran parte indisturbati nel cuore della zona euro: Olanda, Lussemburgo e Irlanda sono tre piccoli Paesi – poco più del 6% della popolazione dell’unione monetaria – ma rappresentano nel complesso quasi metà dell’elusione fiscale internazionale delle grandi società. In gran parte questi tre Paesi operano in questo modo direttamente a danno degli altri, gli stessi con i quali condividono la moneta e severe regole di vigilanza sui bilanci pubblici.
L’occasione per parlarne è arrivata qualche giorno fa, a Davos, in un incontro sui paradisi fiscali. È allora che sono stati presentati i risultati di uno studio pubblicato d*ue mesi fa da tre economisti: Thomas Tørsløv e Ludvig Wier dell’Università di Copenaghen, insieme a Gabriel Zucman dell’Università di California a Berkeley. I tre hanno appena portato a termine un lavoro da veri e propri detective del sistema di contabilità internazionale. Il loro obiettivo era calcolare l’impatto dell’elusione da parte di grandi gruppi come Apple, Facebook, Amazon, Google-Alphabet o Nike. Non è un compito facile, che infatti sfugge in gran parte agli stessi governi. Risultano infatti invisibili molti degli spostamenti ad arte di utili dal Paese in cui sono stati realizzati a un Paese che offre aliquote effettive quasi a zero, in primo luogo perché vengono registrati come proventi da attività intangibili: brevetti, ricerca e sviluppo, importazione di servizi. Non per niente, i tre studiosi notano alcuni paradossi nella contabilità di Nike, Facebook, Apple e Google. In ciascuno di questi gruppi, la somma dei profitti realizzati dalle società controllate – così come visibile nella banca dati Orbis di Bureau Van Dijk-Moody’s – bizzarramente risulta pari a una frazione minima dei profitti consolidati globali. Il caso più estremo è Facebook, i cui profitti del 2015 sono di circa 11 miliardi di euro ma la somma dei ricavi tassabili di tutte le sussidiarie resta a zero.
Per individuare la reale situazione Tørsløv, Wier e Zucman cercano indizi nella quantità di ricavi tassabili in proporzione al monte-salari dei dipendenti in ogni dato Paese: i profitti trasferiti artificialmente infatti gonfiano il bilancio, ma non il numero dei dipendenti. I tre indagano anche per capire in quali Paesi risultano la quota di profitti in mano agli stranieri sia curiosamente fuori proporzione e studiano le comunicazioni (obbligatorie) a Eurostat di tutti i Paesi europei sulla contabilità aggregata delle imprese.
Le accuse all’Olanda
Alla fine vengono fuori conferme impressionanti sui soliti sospetti. Il Lussemburgo, con aliquote bassissime su una base imponibile tanto artificiale quanto sterminata, presenta profitti societari tassabili pari a sette volte le medie europee (in rapporto al monte-salari). Del tutto fuori linea anche Irlanda e Olanda. Questi tre Paesi nel 2015 pesano da soli per 293 miliardi di euro di base imponibile societaria sottratta al resto del mondo, più di cento miliardi ciascuna per Irlanda e Olanda. Poco importa che proprio il governo dell’Aia sia stato in prima linea dall’inizio della crisi nell’esigere rigore di bilancio agli stessi Paesi ai quali nel frattempo sottraeva decine di miliardi di entrate fiscali. Ai grandi gruppi bastava registrare nei Paesi Bassi profitti realizzati nel resto d’Europa sulla vendita di servizi definiti «intangibili», perché digitali. Questi ricavi fatti apparire in Olanda con aliquote quasi a zero sono così vasti che l’avanzo estero del piccolo Paese sull’estero (80 miliardi di dollari) si avvicina ormai a quello della Cina (120 miliardi).
Il paradosso di Dublino
Dell’Irlanda era presente all’incontro di Davos il ministro delle Finanze Paschal Donohoe. Davide Serra, il fondatore del fondo Algebris, gli ha presentato le proprie stime sulla contabilità dei rapporti di Dublino con l’Unione Europea dal momento dell’ingresso 40 anni fa: si contano 150 milioni di euro di trasferimenti netti dall’Irlanda al resto d’Europa, attraverso il bilancio comunitario; e 200 miliardi di elusione innescata da Dublino a danno degli altri Paesi. È celebre il caso di Apple, la cui aliquota effettiva ritagliata ad hoc era dello 0,005% nel 2014 (il gruppo di Cupertino di recente ha accettato una transazione). Meno noto invece il caso di Google, presentato da Serra a Davos. Nel 2015 il gruppo di Menlo Park ha realizzato ricavi per 22,6 miliardi in Europa, Medio Oriente e Africa. Tutte le entrate sono emerse contabilmente in Irlanda. Tuttavia, fra «diritti di proprietà intellettuale» pagati a altre controllate dello stesso gruppo e varie deduzioni, alla fine Google ha pagato solo 48 milioni di tasse all’Irlanda e quasi zero a chiunque altro. Si tratta un’aliquota effettiva dello 0,2% sui redditi. Sono operazioni del genere, secondo i tre studiosi di Copenaghen e Berkeley, a produrre ormai distorsioni immense: due terzi dei profitti esteri delle multinazionali americane nel 2015 (e il 45% di quelle di tutto il mondo) slittano verso i paradisi fiscali. E sulle spalle dei contribuenti ordinari degli Stati Uniti e dell’Europa pesano 60 miliardi di euro in più da pagare al posto di chi elude.