Corriere della Sera, 30 gennaio 2018
Polveriera Libano. La guerra in attesa
Non li vedi, non li senti, ma ci sono. Mimetizzati da pastori, mescolati agli abitanti dei villaggi, infiltrati come contadini tra frutteti e colline che precipitano in piccoli canyon. Gli Hezbollah, i guerriglieri filoiraniani anima di questa parte di Libano, mantengono un profilo basso rivelando solo il volto dei loro martiri, stampati sui manifesti appesi ovunque, e mostrando il colore giallo delle loro bandiere. Accanto appaiono quelle verdi di Amal, l’altra fazione sciita, e le insegne di qualche gruppo minore. Simboli esteriori per marcare le zone di influenza a pochi chilometri dal confine con il «nemico» che neppure menzionano: Israele.
È qui che veglia uno schieramento di un migliaio di soldati italiani, parà della Folgore e elementi del Savoia Cavalleria. A loro è affidato il settore ovest. Da Naqoura, sulla costa, verso l’interno. Lo guida il generale Rodolfo Sganga, un ufficiale con esperienze in Afghanistan e negli Usa, abituato a interagire con gli alleati. Il nostro contingente è parte di Unifil, la missione Onu ampliata dopo il conflitto del 2006 e che ha portato 10 mila soldati in rappresentanza di 40 Paesi in questo angolo di mondo. Difficile. Ora c’è una fragile tregua, ma basta un nulla ad accendere il barile di polvere. I caschi blu osservano e sono osservati dai contendenti. Nessuno fa sconti, i rivali si rinfacciano quotidianamente le colpe e cercano di coinvolgere l’arbitro, le Nazioni Unite. Ecco perché servono equilibrio, professionalità, tatto. In questo gli italiani ci sanno fare, districandosi in un teatro angusto. Tutto è vicino, per questo pericoloso.
Lo si percepisce inerpicandosi sull’alta torretta dell’avamposto 1-31 affidato ad una ventina di militari guidati da un sottoufficiale. Chiusi per due mesi dietro palizzate in cemento controllano iI «panorama». Fantastico, ma anche inquietante. Da un lato la boscaglia libanese, dall’altro, divisa dalla Blue Line, la strada usata dagli israeliani. A due metri, un bunker. Siamo sulla frontiera. Sotto si vede il lindo kibbutz di Shlomi, all’orizzonte c’è la baia di Haifa. È a tiro di missile: infatti durante la crisi del 2006 gli Hezbollah li hanno sparati ed è facile capire come non serva neppure fare troppi calcoli di tiro. Le ultime stime dicono che ne abbiano 130 mila. I «ragazzi» sulla torre e nelle postazioni attorno al perimetro devono segnalare la presenza di intrusi, violazioni, movimenti sospetti. Verso nord i parà, a bordo di blindati Lince, percorrono stradine, visitano centri abitati, perlustrano alture.
In certi settori i guerriglieri impiegano degli esploratori che fingono di essere degli agricoltori. Sfruttano l’ambiente, la natura, le tradizioni della caccia. Gli israeliani temono le «visite», pensano che possano essere in vista di operazioni a sorpresa, come lo sconfinamento e l’occupazione di una località. Per questo Gerusalemme vuole realizzare un muro che rafforzi una protezione già possente costituita da una doppia recinzione, aree minate e terra pettinata per scorgere eventuali orme. Il piano è contestato da Beirut in quanto in una dozzina di punti la linea di demarcazione non è stata mai definita. I libanesi hanno minacciato ritorsioni ed hanno rilanciato le accuse di violazioni. Il generale Robert al Alam, responsabile dell’esercito a sud del Litani protesta: «Ogni giorno mandano droni, aerei, fanno spionaggio elettronico». Replica un alto ufficiale israeliano, Ronen Manelis: «L’Iran ha aperto una sezione libanese, sta estendendo la sua influenza ed ha ripreso la costruzione di una fabbrica di missili. Una casa su tre in questo territorio nasconde una postazione dell’Hezbollah». E non poche sono interrate.
Il clima internazionale è caldo, dunque i nostri ufficiali abbassano la temperatura. Ogni mese organizzano un vertice a tre a Naqoura, con libanesi e israeliani. Le parti non si parlano direttamente, i tavoli non devono toccarsi, ogni delegazione volta le spalle al Paese avversario però i protagonisti non rinunciano all’appuntamento. Fondamentale per prevenire incidenti. Come è importante l’atteggiamento verso i civili. Il generale Sganga ha incontrato decine di sindaci, avviato – come i suoi predecessori – programmi in aiuto alla popolazione. Le pattuglie hanno un approccio flessibile, verificano senza offendere. Quando entrano in un centro abitato rimuovono la mitragliatrice, procedono a passo d’uomo, fanno acquisti in mercatini. «La popolazione ha gradito. Dobbiamo essere meno invasivi e conquistarci il sostegno», spiega il comandante della Folgore dopo aver introdotto le misure. Una dottrina che i paracadutisti hanno applicato per catturare cuore e menti in una terra abituata a soffrire. E che ha paura di patire ancora.
C’è chi si aspetta provocazioni dei sauditi. Il principe Mohammed – dicono – è «una testa vuota», capace di tutto. Un alto prelato cristiano, invece, beatifica l’Hezbollah come fattore di stabilità contro i jihadisti. È una pace sospesa dove tutti sono consapevoli di rischiare molto. E dunque provano a evitare che l’incendio riparta.