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 2018  gennaio 30 Martedì calendario

Afghanistan, strage di cadetti a Kabul. Il Paese nella morsa di taleban e Isis

Una staffetta. A un attacco dei taleban ne segue uno dell’Isis. L’Afghanistan è al punto zero della guerra al terrorismo. Ieri è toccato all’Accademia militare di Kabul, l’istituzione inaugurata nel 2013 che doveva diventare il fiore all’occhiello dell’esercito afghano. Un commando di 5 combattenti dello Stato islamico ha eluso i controlli e si è presentato al check-point dell’entrata. Due kamikaze hanno aperto la strada, gli altri tre si sono diretti all’interno a colpi di kalashnikov. Due sono stati abbattuti, uno, ferito, è stato catturato. Undici militari sono rimasti sul terreno.
L’agenzia Aamaq ha rivendicato a nome del Wilaya Khorasan, branca centroasiatica del Califfato. L’Isis, rafforzato dal trasferimento di centinaia di foreign fighter dalla Siria, nel 2017 ha messo a segno 15 attentati, contro i due del 2016. Sabato erano stati invece i taleban a prendere di mira le forze di polizia. L’ambulanza carica di tritolo ha ucciso 103 persone. Quattro giorni prima era stata la volta della sede di Save the Children a Jalalabad, dieci giorni fa l’assalto all’Hotel Intercontinental, 22 morti.
Nei momenti più bui della presidenza Hamid Karzai si era guadagnato il titolo di «sindaco di Kabul», il suo successore Ashraf Ghani rischia di non poter rivendicare neanche quello. Karzai era stato salvato dal «surge» di Obama, i militari americani erano saliti a oltre 100 mila, le forze Nato nel complesso a 150 mila. I taleban erano stati respinti verso le valli. Ora i soldati occidentali sono 15 mila, il «mini-surge» di Trump, 5 mila uomini in più, non basta. Gli studenti coranici sono riscesi in pianura. Il Pentagono stima che controllino il 43% del territorio.
Gli afghani da soli non ce la fanno. Secondo il rapporto dell’istituto Sigar, nel 2016 hanno avuto 6785 caduti, i dati preliminari per il 2017 parlano di un nuovo balzo a quasi 10 mila morti. Un ritmo «insostenibile». Come sono insostenibili le spese per l’Occidente. Mantenere «gli stivali sul terreno» costa un milione a soldato all’anno. L’idea era dirottare le risorse verso l’addestramento. Gli Usa hanno speso 70 miliardi dal 2002 al 2017. Ma le unità efficienti sono ancora una frazione dei 300 mila uomini che, sulla carta, compongono le forze di sicurezza. In un Paese che ha un reddito pro capite inferiore ai 1000 dollari all’anno, l’esercito è soprattutto fonte di sopravvivenza. Le famiglie pagano gli ufficiali, con una parte o tutto il salario, per tenersi i ragazzi a casa, a lavorare.
A questo vanno aggiunte le spaccature etniche. I pashtun, dominanti fra i taleban, restano al potere con l’ala «filo-americana». I tagiki, secondo gruppo, si sentono emarginati, dopo tre presidenziali perse e contestate dal loro leader Abdullah Abdullah. È la fronda, nelle istituzioni, nell’esercito. I vicini non aiutano. Il Pakistan considera l’Afghanistan la sua retrovia, «profondità strategica» in caso di guerra con l’India. E manovra i «suoi pashtun», compresi gli islamisti. Non ha interesse a un Afghanistan stabile, e alleato di New Delhi. Il doppio gioco pachistano ha scatenato la reazione di Trump, con la minaccia di tagliare gli aiuti a Islamabad.
I gruppi islamisti reagiscono con un’offensiva senza precedenti. Le trattative di pace sono in stallo, il presidente Usa ha detto chiaro che «ora» non vuole parlare con i taleban. Gli studenti coranici hanno una loro «ambasciata» a Doha, dove ruotano i contatti fra il «quartetto» regionale: Afghanistan, Pakistan, Stati Uniti, Cina. L’idea di Washington è isolare i taleban «cattivi» dall’ala politica disposta a tornare al potere senza far precipitare il Paese nel Medio Evo. Nel gioco si è inserita la Russia. Cerca un asse con la Cina, come in Siria, per tornare a Kabul da mediatrice a 40 anni dall’invasione dell’Armata russa.