La Stampa, 30 gennaio 2018
Vita ai tempi del #mipiace
Prima o poi il pentito doveva arrivare. Nel nostro caso si chiama Simona Ficuciello che ha pubblicato una foto di sé con indosso una t-shirt bianca e sopra scritto «(in)influencer». Per i quattro che non lo sapessero, magari perché non hanno figli che sanno tutto di gente salita alla notorietà col nome di Favij o Clio MakeUp, gli influencer sono persone che ce l’hanno fatta: nel mondo concretamente illusorio di Internet, hanno trovato il modo di raggranellare un credito e un reddito per la loro capacità di piacere sui social. Traduzione: hanno un seguito e un patrimonio di like così straripante che diventano «spazi pubblicitari viventi», come dice Simona Ficuciello: una si fa ritrarre con la borsa Gucci, un’altra spiega come si tiene in forma con questa o quella tisana ayurvedica, e l’intera giornata si tramuta in uno spot. Il problema, oseremmo dire filosofico, è che un influencer diventa tale perché fa se stesso, ma per restare tale deve fare quello che gli altri si aspettano da lui. Se dico che la tua camicetta mi piace, conclude Simona, vorrei che tu capissi che lo dico perché mi piace, e non perché #mipiace. Ma Simona non si senta un alieno. La vita quotidiana ai tempi di Internet, che si faccia politica o giornalismo o si stia semplicemente su Facebook, è una caccia inesausta al #mipiace. Promesse mirabolanti, cronache sguaiate, insulti sanguinosi, buonissimi sentimenti, tutto fabbricato per soddisfare un pubblico. Ecco, Simona in fondo ha gridato che il re è nudo (e incidentalmente ha avuto un miliardo di like).