Avvenire, 30 gennaio 2018
Quando i costruttori d’auto fanno i furbi
Dalle Ford Pinto che prendevano fuoco all’improvviso, fino alle scimmie usate come cavie per testare gli effetti delle emissioni nocive. Passando per il “dieselgate”, ovvero la manipolazione illecita sulle centraline di scarico di 11 milioni di vetture vendute dal Gruppo tedesco in tutto il mondo per nascondere la loro potenzialità inquinante. Una lunga scia di scandali ha costellato la storia dell’industria dell’automobile, dove la negligenza o la mancanza di scrupoli del management dei costruttori ha avuto conseguenze drammatiche. Il tutto aggravato spesso dall’inefficacia di un’azione di controllo e prevenzione da parte dei governi nazionali, l’attenzione dei quali nei confronti dell’automobile è stata sempre condizionata dagli scrupoli messi in campo quando era necessario sanzionare o frenare un settore che ha storicamente garantito milioni di posti di lavoro.
Volkswagen – insieme a Daimler e BMW – torna ora al centro delle accuse per gli esperimenti sui gas di scarico effettuati sugli animali, mentre è ancora alle prese con i richiami, le cause giudiziarie e le ipotesi di rimborso anche per i clienti europei, dopo aver pagato le conseguenze della truffa scoperta nel settembre del 2015 con 15 miliardi di risarcimenti negli Stati Uniti e un danno d’immagine enorme. Ma il “dieselgate” è stata una manipolazione da poco in confronto al difetto nascosto dall’americana Ford nel 1971 sulla Pinto, auto economica dell’epoca che superò le 320.000 unità vendute soltanto nel primo anno di messa sul mercato. Gli sfortunati guidatori che si ritrovavano tamponati in mezzo al traffico non erano a conoscenza del difetto al tubo di alimentazione che mandava il veicolo in fiamme. Un “problema tecnico” che avrebbe provocato più di 900 morti e che era dovuto alla posizione del serbatoio, mal progettato. Una situazione ben nota ai dirigenti della Ford, che però decisero di ignorarla poiché il costo di riprogettazione e correzione dell’errore era di gran lunga superiore rispetto al costo dei rimborsi giudiziari versati alle vittime di questo difetto.
Non soltanto i fabbricanti di auto, ma anche quelli di accessori sono stati al centro delle polemiche: Takata, produttore di airbag giappo- nese che controllava il 20% del mercato mondiale, è responsabile della fabbricazione di milioni di pezzi non a norma, montati sulle vetture dei 10 marchi maggiori a livello mondiale. La scoperta del problema nel 2014 ha provocato il richiamo di oltre 50 milioni di automobili nel mondo a causa dei cuscinetti difettosi che, a causa di un gonfiaggio troppo violento, potevano scaraventare verso l’automobilista schegge di metallo. Secondo le autorità americane, sarebbero 11 le morti riconducibili a questo difetto. Dallo scoppio dello scandalo, l’azienda ha perso il 95% del suo valore prima di dichiarare il fallimento. Takata ha 46 mila dipendenti in 56 stabilimenti in 20 Paesi, con un fatturato di 663 miliardi di yen nel 2017, per il 90% realizzato all’estero. I debiti della società ora ammontano a oltre mille miliardi di yen, l’equivalente di 8 miliardi di euro, che includono i costi sostenuti dai produttori auto, fra cui Toyota e Honda, per gli airbag difettosi. Si è trattato della maggiore insolvenza mai registrata da una società nipponica.
Ancora marchi tedeschi nel mirino pochi mesi fa, quando il settimanale tedesco Der Spiegel ha puntato il dito contro l’industria automobilistica dei tre grandi gruppi BMW, Daimler e Volkswagen, affermando che potrebbe esistere un cartello fra queste aziende, introdotto con l’obiettivo di condividere decisioni strategiche e tecnologiche. In apparenza potrebbe sembrare un accordo innocuo, ma l’inchiesta ancora in corso sta verificando se si tratti di un metodo per aggirare le norme antitrust che vietano assolutamente queste intese volte a gestire il mercato, dettando prezzi e modalità, e tenendo in una posizione di minoranza gli altri costruttori e fornitori.
Tutti sporchi, brutti e cattivi dunque i costruttori? È indubbio che l’automobile abbia spesso “barato” ma, soprattutto in tema di emissioni, è altrettanto vero che abbia prestato il fianco ad accuse esagerate e a volte infondate. Come è innegabile che l’onda lunga del “dieselgate” abbia travolto tutti segnando però una rivoluzione per il mondo dei trasporti. Dallo scoppio dello scandalo i test sono stati adeguati alla realtà e le norme ambientali sono state inasprite, sancendo il progressivo addio ai motori diesel nei segmenti più bassi, dove gli ingenti costi di adeguamento non rendono economicamente più sostenibile la produzione di vetture a gasolio e spingendo tutti i marchi verso l’elettrificazione spinta di molti modelli in gamma o verso la ricerca di altre alimentazioni “pulite” malgrado il mercato e le scelte di chi acquista auto non giustificassero questa svolta. Uno sforzo mostruoso, e pagato a caro prezzo: per “lavarsi la coscienza”, ma anche per continuare ad esistere.