Il Messaggero, 27 gennaio 2018
Philo Vance, il dandy che citava Cervantes
Willard Huntington Wrigth nacque a Charlottesville, in Virginia, nel 1887. Studiò ad Harvard, e divenne un affermato critico letterario. Subì il fascino di Nietzsche, di Oscar Wilde e di D’Annunzio: forse furono questi esempi di esasperato suprematismo a indurlo al consumo di alcool e di droghe. Ne uscì esaurito, e i medici gli prescrissero un lungo e assoluto riposo, vietandogli tutto, anche la lettura di libri. Il paziente pensò che questo non gli proibisse di scriverli, se non erano troppo impegnativi. Così, per passare il tempo, e raggranellare qualche provento, il brillante e trasgressivo W.H.Wright cambiò nome e divenne S.S. Van Dine. Con questo pseudonimo pubblicò nel 1926 un romanzo, La strana morte del signor Benson che introdusse nelle dectective stories uno dei personaggi più famosi e duraturi: il geniale, erudito e raffinato Philo Vance.
LE REGOLEIl successo fu immediato, e procurò a Van Dine fama e ricchezza. Il giallo psicologico era agli albori, e il nostro autore pensò bene di definirne le venti regole classiche, fondate sul leale rapporto tra protagonista e lettore, che deve avere in mano tutti gli indizi disponibili per trovare il colpevole; cosicchè, rileggendo il romanzo, possa darsi del cretino per non averne indovinato la soluzione. In realtà lo schema è così ripetitivo che dopo un po’ si capisce benissimo come andrà a finire. Ma questo è forse il segreto del giallista: illuderci che anche noi siamo dei potenziali geniali investigatori.
LA PRODUZIONETra il 26 e il 1939, anno in cui morì prematuramente, Van Dine scrisse dodici romanzi, di crescente successo, declinante ispirazione e trame sempre più inconsuete. Mentre il signor Benson era stato ucciso da un ordinario colpo di pistola, e la Canarina era stata banalmente strangolata, le vittime successive vengono arpionate da un drago, trafitte da un arciere, fracassate da una statua egizia, e avvelenate dall’acqua pesante. La fantasia sostituì la logica, e i critici si presero la rivincita sul loro arricchito collega, accusandolo di dilettantismo, arrivismo e dissolutezze varie. C’era molta invidia in questa acredine. Comunque, nonostante lo smalto diventasse sempre più opaco, Van Dine continuò a vendere milioni di copie: Philo Vance fu interpretato da William Powell, e da Basil Rathbone, il cui naso aquilino si adattava tanto al segaligno Sherlock Holmes quanto al nostro investigatore newyorkese, descritto con «un profilo che ricordava le immagini dei Medici, e una piega delle labbra lievemente crudele». In realtà anche gli ultimi racconti ebbero successo non tanto per la plausibilità degli intrecci, sempre più improbabili, quanto per il fascino del loro inimitabile investigatore. Benché fosse una replica forzata di Jean Des Esseintes e di Robert de Montesquiou, Philo Vance rappresentava infatti quell’estetizzante decadentismo che affascinò molti giovanotti degli anni ruggenti. Vediamone alcune caratteristiche.
IL PROFILOMalgrado la giovane età (sulla trentina) la sua cultura è straordinaria in estensione ed intensità. Vance traduce i frammenti di Menandro, cita Goethe in tedesco, Orazio in latino, Cervantes in spagnolo, Balzac in francese e Dante in italiano. Naturalmente conosce i geroglifici dei faraoni, i cuneiformi mesopotamici e l’ebraico dell’Antico Testamento. Frequenta regolarmente i concerti, il teatro, i musei e le esposizioni, possiede una vastissima biblioteca di antropologia, colleziona stampe cinesi e statuette di Tanagra, e di tanto in tanto smaschera un falso in qualche galleria d’arte. La cura della mente non gli fa trascurare quella del corpo: eccelle nella scherma, sverna sciando tra le montagne svizzere, gioca a polo, tira con l’arco ed è maestro di ju jutsu, con il quale, all’occorrenza, atterra un brutale aggressore. Possiede una scuderia e alleva cani di razza. Veste con raffinata eleganza, cappello, bastone e anche monocolo. È imbattibile a scacchi e a poker, giochi che gli rivelano la personalità dell’antagonista, e magari dell’assassino.
Assistito da un simile arsenale di virtute e conoscenza, Vance si accosta al crimine con la curiosità di un annoiato rentier, non per sete di giustizia ma per pura sfida intellettuale. L’amicizia con John Markam, il solido Procuratore Distrettuale, gli consente di dirigere di fatto le indagini più complesse, ridicolizzando i tradizionali metodi polizieschi del sergente Heath, incapace e ottuso ai limiti della caricatura, e risolvendo l’enigma sulla base di deduzioni psicologiche. Questo presuppone che il colpevole sia geniale quasi quanto lui, e che abbia, nel romanzo, un ruolo di assoluto rilievo: insomma il protagonista meno sospettabile che proprio per questo, come abbiamo visto, è di facile e gratificante individuazione. Superfluo aggiungere che Vance, diffidente della giustizia umana e scettico su quella divina, una volta risolto il caso si disinteressa del seguito. Se necessario, favorisce al reo una dignitosa via di fuga attraverso un opportuno suicidio. Dopodiché, più disilluso di prima, ritorna a tradurre i lirici greci e a catalogare gli acquerelli di Cézanne.
ENCICLOPEDISMOIl lettore, superato il primo momento di incredulità davanti a un così disincantato enciclopedismo, resta comunque affascinato dall’accuratezza dell’ambientazione, dal serrato rigore dei dialoghi, dalla complessa psicologia dei personaggi e più in generale dallo stile del narratore, dietro al quale si intravede una ricca e solida cultura. Quella stessa che Vance ostenta con mal dissimulata indifferenza e che suscitò in Raymond Chandler, il padre del giallo d’azione, il desiderio di prenderlo «a calci nel sedere».
In effetti il personaggio è quasi metafisico: nessun umano può accumulare, in così poco spazio di vita, una così estesa conoscenza. Andando a cavallo, tirando di scherma, sciando da maestro, frequentando teatri e locali notturni, e levandosi dal letto non prima di mezzogiorno, ci chiediamo dove Vance trovi il tempo per coltivare la sua monumentale erudizione. Ma questo è marginale. Del resto nessun personaggio letterario, dai tempi dei poemi omerici, brilla per credibilità. Persino i protagonisti della Commedia umana di Balzac, sono psicologicamente improbabili nel loro presunto realismo. Philo Vance è come Vautrin, papà Goriot e la duchessa di Langeais. Esagera in tutto, e non è verosimile in nulla. Il miglior antidoto per chi, annoiandosi del dannato quotidiano, voglia rifugiarsi, per qualche ora, nelle tentazioni della dannazione virtuale e dell’altrettanto illusorio trionfo della giustizia.