il Giornale, 27 gennaio 2018
I prodotti tipici italiani? Hanno il gusto di bufale (create dalla pubblicità)
La cucina italiana mitizzata in tutto il mondo non esiste. O meglio, è una creazione recente, tutt’al più degli anni Settanta. Un’invenzione di marketing territoriale decisamente riuscita ma che nasconde tradizioni prodotte in kit come una credenza dell’Ikea, narrazioni suggestive ma vere come la favola di Pinocchio. È la tesi scioccante del libro «Denominazione di origine inventata. Le bugie del marketing nei prodotti tipici italiani» di Alberto Grandi, che esce con Mondadori il 30 gennaio ed è destinato a mettere in subbuglio il mondo dell’enogastronomia italiana, dove tutto è bello, tutto è buono, tutto è antico.
Grandi fa una ricostruzione storica accurata e conclude che «il mito della cucina italiana sia nato negli anni Settanta» quando l’Italia scelse di puntare «sulla valorizzazione delle piccole imprese, dei distretti industriali, del made in Italy e quindi anche delle sedicenti eccellenze enogastronomiche». Sedicenti? Già, perché secondo Grandi quell’aura mitologica di tradizione che c’è dietro ogni tipicità, quell’Arcadia del culatello spesso semplicemente non esiste. L’Italia intanto si è unita solo nel 1861, ha vissuto fasi di povertà, epidemie, le abbuffate di ravioli e di pizze sono un’oleografia di cartone. L’Italia non ha mai avuto un corpus di ricette nazionali, perfino il gastronomo Pellegrino Artusi raccolse quelle che lui riteneva le più adatte a essere riprodotte dalle massaie nelle case della imberbe borghesia italiana a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Alla fine a costruire la cucina italiana e a porre i presupposti del suo successo mondiale furono soprattutto i paisà, gli immigrati in Nordamerica che crearono «un melting pot italico, che era il frutto delle migliorate condizioni economiche» e quindi una cucina che era «la fusione di usi locali diversi, che mai in patria si sarebbero incontrati, con l’aggiunta di alcuni prodotti tipici del paese ospitante». Grandi fa un bel po’ di esempi di mitologia posticcia. Eccone alcuni.
Lardo di Colonnata. Nella narrazione di questa eccellenza di Carrara ci si è messo di tutto: i cavatori di marmo che avevano bisogno di grasso, Michelangelo che adorava questo salume. In realtà si tratta di un prodotto eccelso ma senza particolare gloria fin quando all’inizio del XX secolo alcuni produttori locali decisero di creare un sistema di valorizzazione che necessitava di un marchio e di una storia.
Il pomodoro di Pachino. Dimenticate trascorsi bucolici, il piccolo frutto del Siracusano è stato creato in Israele dalla Hazera Genetics come risultato particolarmente riuscito di ibridazioni e incroci. Niente di geneticamente modificato se non la convinzione che esistesse prima degli anni Novanta dello scorso secolo.
Il Parmigiano Reggiano. Dop tra le più celebrate, il fantastico formaggio grattugiabile è, nella tipologia che conosciamo ora, una cosa piuttosto recente. Fino agli anni Sessanta erano in uso forme più piccole (20 kg contro il 40 attuali) dalla crosta nera. E molti pensavano che fosse buono solo se avesse la goccia...
Panettone. Guai a chi ce lo tocca. Però chi pensa che un secolo fa Milano fosse piena di laboratori che producevano panettoni artigianali sbaglia. Il mercato era dominato dal colossi industriali che peraltro lo avevano trasformato da basso e compatto in alto e aereo.
Grandi tratta con dovizia il mito della pasta, che in realtà fino all’Ottocento gli italiani consumavano poco (alla faccia dei mangiaspaghetti), dell’Aceto balsamico di Modena, prodotto da supermercato che molti confondono con il ben più nobile Aceto Balsamico tradizionale di Modena dop, del cioccolato di Modica elaborato solo dai primi anni Novanta nella pasticceria Bonajuto. Finiamola qui altrimenti dobbiamo sparecchiare e andare da McDonald’s.