il Giornale, 27 gennaio 2018
Elizabeth Hawley all’ultima vetta: l’Himalaya perde la memoria
Se diceva sì, solo allora, potevi considerarti davvero in vetta. Come l’uomo del monte, ma in adorabile, bisbetica, quota rosa, era lei la signora dei monti. Quella che ha accreditato per oltre 40 anni le spedizioni ai 14 Ottomila della terra e oltre. Il suo imprimatur valeva il titolo di summiter. Un suo niet ti faceva ripiombare nel lungo elenco dei disputed, di quelli che, insomma, ci provano, millantano, ma poi chissà se, infine, la piccozza in cima ce l’hanno davvero piantata o si son fermati poco prima per selfie e foto. È morta ieri a Kathmandu, in Nepal, miss Elizabeth Hawley. Aveva 94 anni e per tutti resterà sempre la «grande dame» dell’Himalaya: alle lusinghe del magnificent Mile di Chicago aveva ben presto preferito il guazzabuglio di Tamel e Kath, la porta nepalese all’Everest e ai suoi fratelli.
Giornalista col piglio documentario, lavora prima nella redazione newyorchese di Fortune. Poi, lei, che non aveva e non ha mai scalato nemmeno una collina, accetta di coprire per l’agenzia Reuters le sorti di una spedizione alpinistica in Nepal. È il 1963: «Non sapevo nulla di monti», ricordava spesso lei. Da allora ha precorso i tempi del fact checking e la lotta alle fake news, applicando il suo metodo all’alpinismo. Ogni spedizione commerciale o professionale lo sapeva: l’«incontro» con Miss Hawley era l’unica strada per la gloria degli annali. Mollata la cronaca, la Hawley non ha dimenticato le interviste: ogni anno, in media, circa 250 spedizioni sono passate dal suo taccuino e dalle sue domande. Apparentemente ingenue: «Che strada hai fatto e che cosa hai visto dalla vetta? Bandierine? Tripodi?». Guai a rispondere con un troppo generico «Ho visto...montagne». Perché lei, pur non essendo mai andata più in alto dei grattacieli dell’Illinois, sapeva esattamente che cosa avresti dovuto vedere e rispondere. Una Salgari dell’alta quota, un notaio delle cime, una Sherlock Holmes in golfini bon ton, perle e plissé alle gonne. Rispettata, temutissima: i peggiori per lei erano i peak beggers, quelli che vorrebbero collezionare vette e successi a tutti i costi. Da lei sono passati tutti: da un giovanissimo Reinhold Messner che nel 1972 compilò i suoi terribili questionari, definendosi sposato, ma anche single e che proprio lo scorso agosto è andato ancora a trovarla, a Simone Moro, a Kilian Jornet Burgada, l’ultrarunner dei record di salita in velocità. Lei amava chi poi magari si ricordava del suo compleanno e le telefonava, ma a nessuno faceva sconti. Riteneva la tecnologia nemica dell’alpinismo vero, si batteva perché le spedizioni non inquinassero l’ambiente riportando a valle e a casa rifiuti e bombole, pur non avendo nulla contro il business delle imprese più commerciali. Potenza della gentilezza e di una fermezza da «arsenico e vecchi merletti», a forza di prendere appunti, la sua banca dati dal ’91 è divenuta l’Himalayan database. Ad aggiornarlo era lei in persona insieme a Richard Salsbury.
Dal 2016 ad aiutarla anche Billi Bierling, che ora ne raccoglierà l’immensa eredità. Sul portale sono registrate, dal 1905 in poi, le ascese a oltre 400 montagne del Nepal, suddivise fra chi ce l’ha fatta, chi ci ha provato, con e senza ossigeno, e anche chi non è mai tornato. Ora da lassù, forse anche lei vedrà le sue cime. Sapendo già dove guardare.