la Repubblica, 29 gennaio 2018
Il Marco Polo con gli sci ai piedi. «Mi chiamavano piccolo italiano». Intervista a Franco Nones
Il Marco Polo della neve. Anche lui aprì una nuova via.
Cinquant’anni fa. Nessuno aspettava un re meridionale.
Primo oro olimpico azzurro nel fondo (30 km), primo non scandinavo a dominare in una specialità da grande nord. Franco Nones aveva 27 anni, tra tre giorni ne compirà 77. E andrà a Grenoble a festeggiare l’anniversario olimpico (7 febbraio).
Come fece: era uno scoiattolo, non un orso.
«Fisicamente era proprio l’opposto degli scandinavi, mi chiamavano il piccolo italiano. Ma ero andato ad allenarmi con loro in Scandinavia e quando vedi il nemico da vicino non ti sembra più così terribile. A parte il loro mangiare: aringhe, merluzzo, renna, muesli, molluschi, licheni. Anche se lì agli operai sconsigliavano il salmone più di due volte a settimana perché non dava forza. Allora tante cose non si sapevano. Però sulla loro organizzazione nulla da dire: tutti gli atleti erano trattati nello stesso modo. Bella democrazia».
Imparò.
«Anche perché Vittorio Strumolo, responsabile federale, ma anche organizzatore di boxe, aveva chiamato come ct Bengt Nilsson, ufficiale svedese, ex istruttore di fondo presso la casa reale. Il nuovo tecnico ci vietò subito il vino a tavola: solo latte e arance».
Prima aveva provato il ciclismo.
«Sì, non me la cavavo male. Da dilettante correvo con compagni straordinari: Gimondi, Motta, Dancelli, Zandegù. Ma era difficile allenarmi, da noi a Pasqua c’era ancora la neve».
Lei cosa aveva alle spalle?
«Una famiglia contadina in Val di Fiemme. Ero terzo di otto fratelli.
Mio papà quando divenne sindaco scriveva a macchina le lettere per la gente del paese ancora analfabeta.
Ho avuto il mio primo libretto del lavoro a 12 anni e mezzo, operaio in una segheria, ci andavo in bici, su strada bianche, una trentina di chilometri al giorno, ma soprattutto il ritorno in salita. La fatica mi piaceva».
Però a 31 anni smise.
«Si, un campione non può consumarsi tutto nello sport, deve lasciare delle energie per la nuova vita. Non si può iniziare un’altra attività commerciale, già sfiancati, ancora con la testa al passato, ogni sfida ha bisogno di forze».
Lo dice a Buffon?
«E a tutti quelli come lui, con rispetto. C’è chi pensa che lo sport debba prendersi il meglio di te, e che per la vita basti il pilota automatico, tanto le grandi emozioni le hai avute prima. Non lo trovo giusto, bisogna darsi da fare anche lì, impegnarsi. Avere voglia e voglie di altro. Dopo lo sport non finisce tutto, ma ricomincia».
Lei a Grenoble andò subito in fuga.
«Al decimo chilometro avevo 30” di vantaggio, al ventesimo solo quattro secondi, credevano crollassi, invece furono norvegesi e svedesi a pagare. Il mio successo fu così uno smacco per loro che in Svezia provocò un’interrogazione parlamentare. Era il primo giorno, in Italia sembrò un miracolo. Mica vero: trenta chilometri e un’ora e mezza di gara sono uno sforzo massacrante».
Vero che sul finale pregò?
«Non esageriamo, qualche Ave Maria l’ho detta. Pregavo perché non mi capitasse niente. Gli sci erano fatti da 22 pezzi di legno, perché non si deformassero con l’umidità della neve, la pista di Autrans non era larga otto metri come quelle di oggi, a – 7 gradi tutto poteva accadere, anche se i legni, spalmati con la cera d’ape erano fluorati, con una sostanza che ci dava l’Eni. Avevo pantaloni di gabardine, una maglietta di lana, il numero 26. In caso di vittoria, avevo promesso di recarmi a Lourdes. Ci andai, davanti a tutti quei malati in fila, che erano lì per la seconda volta, ho pensato: forse fanno bene a credere».
Lei, vincendo, aprì un mercato.
«Non voglio darmi arie, ma nello sci nordico ho buttato giù il muro di Berlino. L’Èquipe scrisse che anche io come Cristoforo Colombo avevo scoperto l’America. Da lì si è sviluppata una passione per le maratone come la Marcialonga. In Norvegia la vendita di sci è raddoppiata con un milione di pezzi. Il resto del mondo ha allargato la fessura: dove era arrivato un piccolo e grintoso italiano potevano anche gli altri. E i miei ex avversari sono amici che scelgono ancora il mio albergo, come la squadra norvegese. Mi stimano perché ho fatto un favore anche a loro, rompendo il monopolio e liberalizzando la disciplina».
Sulle neve incontrò anche sua moglie.
«Inger, svedese, a Voladen. Doveva fare la hostess per la Sas. I suoi non approvavano che si mettesse con un italiano, avevamo la fama di farfalloni e di mangiaspaghetti. Ma lei prese il treno e mi raggiunse».
Mentre lei festeggia, i suoi eredi saranno in Corea.
«È cambiato tutto. Spero in Pellegrino. Loro sono professionisti, io ero finanziere, devo tutto alle Fiamme Gialle, ma la mia vita me la sono organizzata da me. Anche se sono sceso dagli sci non ho mai smesso di spingere».