la Repubblica, 29 gennaio 2018
Palestina, perché Abu Mazen deve lasciare
Elie Shamaa è quel genere di giovane di cui la Palestina ha bisogno: è un tecnico specializzato, lavora per un’organizzazione internazionale in Cisgiordania, parla bene inglese e sta completando un master grazie a un programma americano a Ramallah. Ormai, però, ne ha avuto abbastanza. Vede altrove il suo futuro. «La gente capisce che sta sprecando la propria vita», mi ha detto. Abbiamo chiacchierato viaggiando verso Nord da Ramallah a Nablus. A ogni curva, sulle colline, si profilavano gli insediamenti israeliani, segno onnipresente di un’occupazione che si protrae da mezzo secolo. Mentre attraversavamo un checkpoint israeliano, Shamaa ha sussurrato: «Da un momento all’altro potrebbero chiudere tutto e riaprire tutto». Per i tre milioni di palestinesi in Cisgiordania è impossibile fare programmi. Le loro vite devono piegarsi ai capricci di Israele.
Nei decenni di questa lotta nazionale, i palestinesi non sono mai stati più deboli di ora. Sotto la guida di Benjamin Netanyahu, Israele è stata implacabile nel compromettere le possibilità della Palestina di essere uno Stato indipendente. Gli Stati arabi, ossessionati dall’Iran, hanno perso interesse nella causa palestinese. In reazione al sentimento di “lesa maestà” percepito dai palestinesi dopo la decisione di Trump di chiudere la questione di Gerusalemme riconoscendola come capitale di Israele, il presidente americano ha minacciato di tagliare «centinaia di milioni di dollari in aiuti e assistenza».
Nonostante questo clima, però, il presidente palestinese Abu Mazen, 82 anni, non può sottrarsi alla responsabilità del fallimento. Il suo governo è considerato una gerontocrazia corrotta: incompetente, distante e sempre più autoritario. Eletto nel 2005 per un mandato di quattro anni, sta per entrare nel quattordicesimo anno di una presidenza incomprensibile. Dietro la parvenza di una “riconciliazione”, le laceranti divergenze tra il suo movimento Fatah e Hamas a Gaza sussistono. Agli occhi di una popolazione che ha un’età media di 20 anni, Abu Mazen e la sua cricca appaiono il passato. Dei 18 membri del Comitato centrale di Fatah, solo uno ha meno di 50 anni. La maggior parte di loro vive bene, anche se tanti palestinesi li liquidano come “i lacché di Israele” a causa della sicurezza che impongono e della cooperazione dell’intelligence con gli israeliani. «Si respira un’atmosfera di paura», ha detto Darin Hussein, manager di una ong che incoraggia i bambini palestinesi a praticare sport. «Chi posta una critica sui social media rischia l’arresto», dice. Anche lei, 35 anni, ha toccato il fondo e mi confida che «qui non cambierà mai nulla».
Abu Mazen ha usato il pugno duro contro la stampa libera proprio quando in Israele un indomito giornalismo investigativo contribuiva ad aumentare le preoccupazioni di Netanyahu dovute alle accuse di corruzione. Ha promulgato un’assurda legge contro i cyber- reati per punire con un anno di carcere chiunque crei un sito web che «miri a pubblicare notizie che potrebbero mettere in pericolo l’integrità dello Stato palestinese o l’ordine pubblico». La legge di fatto equivale a una violazione della Costituzione del 2003 che garantisce il diritto di ognuno di «esprimere la propria opinione e farla circolare». La Palestina sta scivolando nella repressione.
Il presidente ha anche messo a repentaglio il sistema giudiziario indipendente. Suscitando obiezioni, ha nominato una Corte Costituzionale che si piega al suo volere. Si è trattato di un mezzo per aggirare l’Alta Corte e togliere l’immunità ai membri del Consiglio legislativo palestinese che non si riuniva da dieci anni. Questa manovra era finalizzata anche a contrastare il suo arci rivale politico, Muhammad Dahlan, in esilio negli Emirati Arabi Uniti. Dahlan è stato condannato al carcere per corruzione. Khalil Shikaki è uno stimato sondaggista palestinese, dirige un centro che riceve finanziamenti dall’Unione europea. Adesso, mi ha detto, il governo ha impedito l’accesso ai finanziamenti, compiendo l’illecito tentativo di costringere il think tank a chiudere. «Il potere ha corrotto Abu Mazen», dice Shikaki. «Ha distrutto il ramo giudiziario e sta annientando la pluralità della società civile».
Naturalmente, Abu Mazen si difende addossando la responsabilità all’occupazione israeliana, con l’espansione negli insediamenti e il ricorso alla forza dell’esercito. L’elettricità è intermittente. L’accesso all’acqua anche. Uno stesso tragitto può richiedere un’ora o dodici. Le famiglie possono essere allontanate con la forza dalle loro case. Ottenere un permesso per recarsi all’aeroporto Ben Gurion o far visita a un parente a Gaza può diventare un grattacapo senza fine. E le piccole umiliazioni si moltiplicano. In queste circostanze, con Netanyahu che propende per la destra e i suoi ministri che parlano apertamente di annettere parti della Cisgiordania, i governi europei sono riluttanti a criticare Abu Mazen. I suoi due figli, Tareq e Yasser, hanno interessi commerciali. La loro posizione privilegiata ha attirato l’attenzione della comunità internazionale. Se la Palestina è scivolata indietro verso la non trasparenza e il governo di un solo uomo – così pensano i più – si tratta di un effetto negativo dell’occupazione. Con Israele che lo prende per il collo, che cosa potrebbe fare Abu Mazen? Simili discorsi non reggono. Smantellando le libertà palestinesi, esautorando la popolazione di ogni potere, Abu Mazen ha demolito le fondamenta dello Stato, privandolo dell’energia che nasce dall’azione del singolo. È giunto il momento di organizzare elezioni che possano spalancare le porte a una leadership più giovane, e mettere in luce l’equilibrio delle forze in Cisgiordania e a Gaza. L’alternativa è una deriva verso il dispotismo sotto il governo di una combriccola di vegliardi piena di risentimento ma a corto di altro.
Abu Mazen si dice ancora impegnato nella soluzione dei due Stati. Ma il consenso nei confronti della pace tra i due Stati va scemando. Il sondaggista Shikaki mi ha detto che tra i palestinesi la soluzione dei due Stati ha un indice di approvazione del 46 per cento, mentre a metà anni Novanta era intorno all’80. Eppure, dice, quella soluzione sarebbe praticabile. Da alcuni sondaggi emerge che alcuni incentivi potrebbero far cambiare idea all’opinione pubblica. Prima o poi Netanyahu se ne dovrà andare. È sterile pensare che chiunque lo sostituisca possa essere disposto a cedere territori in cambio di pace. Eppure è possibile: è già accaduto in passato. Anche Trump, un giorno, non ci sarà più. Abu Mazen potrebbe vivere molti anni ancora, ma il danno che sta arrecando alla causa palestinese è tale che dovrebbe lasciare subito, se non è disposto a indire le elezioni nel 2018. Nel vuoto attuale, il sogno di uno Stato con gli stessi diritti per ogni popolo – una sorta di Stati Uniti della Terra Santa – sta guadagnando terreno. Si tratta di un’illusione, anche se coinvolgente, di un sistema simbolico inconsistente per la distruzione di Israele, inteso come patria e nazione degli ebrei. Non si realizzerà.
L’impulso di Trump a far saltare in aria lo status quo è pericoloso. Altrettanto pericoloso, tuttavia, è il modo col quale Abu Mazen si culla nel medesimo status quo. È corrosivo. La minaccia del presidente americano di tagliare gli aiuti potrebbe lasciare milioni di rifugiati palestinesi senza accesso all’istruzione o alle cure mediche. È inaccettabile. Altrettanto inaccettabile, però, è che gli Stati arabi contribuiscano al budget dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi soltanto nella misura del 3,5 per cento, quando il contributo degli americani si avvicina al 25. Il “processo di pace”, inadeguato a porre rimedio alla questione dei rifugiati, è diventato un meccanismo infernale e corrotto che partorisce vittimismo e maschera abusi. L’Autorità Palestinese è soltanto un nome di facciata.
La strada da Ramallah a Nablus si snoda dall’Area A, sotto il controllo dei palestinesi, all’Area C che occupa il 60 per cento della Cisgiordania ed è sotto il controllo di Israele: il lessico degli agonizzanti Accordi di Oslo permane. Pochi giorni prima del mio arrivo, nei pressi di Nablus, il colono Rabbi Raziel Shevach è stato assassinato e la sua uccisione è stata accolta con esultanza da Hamas. Giovani coloni con il look tipico di chi vive su queste colline – kippah e riccioli ai lati del viso – affollano il ciglio della strada, mentre una pattuglia di soldati israeliani li tiene lontani dai palestinesi. È un giorno come un altro in Cisgiordania. È giunto il momento per Abu Mazen di andarsene, prima che i giovani palestinesi promettenti come Elie Shamaa se ne vadano dalla loro terra occupata.
Traduzione di Anna Bissanti