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 2018  gennaio 28 Domenica calendario

Intervista a Roberto Vacca

Mentre si accarezza il pizzo che fa un po’ barone siciliano e un po’ Mefistofele, Roberto Vacca mugugna con il suo inconfondibile vocione. Erano anni che non ne ascoltavo le cadenze tonitruanti, erano anni che non incrociavo le sue riflessioni. Quest’uomo, che compirà presto 91 anni, portati con disinvoltura, non sembra ancora essersi dato un limite. O meglio un limite piuttosto serio questo scienziato, inventore, matematico, divulgatore, futurologo, se lo è dato. Mi dice: non ci crederà, ma ho calcolato la data della mia morte. Lo guardo con l’infinita tenerezza con cui ci si atteggia nei riguardi dei pazzi, o dei simpatici megalomani. Ma poi penso che nel modo più semplice egli mi abbia messo a parte di un suo profondo convincimento. Non mi ha detto: la mia prossima invenzione rivoluzionerà il mondo, mi ha detto io morirò nel 2022. Sotto sotto quest’uomo sufficientemente miscredente ha messo in conto non già la programmazione di un suicidio, non soffre di depressione, e neppure il sospetto di una malattia incipiente (scoppia di salute), ma un calcolo che richiede competenze di equazioni differenziali piuttosto sofisticate.
Le dà fastidio dipendere da un numero?
«Tutta la mia vita si è composta di numeri. A dodici anni mio padre, grande matematico, mi ha insegnato l’aritmetica binaria».
Una vita all’insegna dell’algoritmo.
«I numeri sono la nostra lingua universale. A sedici anni per breve tempo soffrii di una leggera depressione. Mi alzavo la mattina come se avessi un macigno sulle spalle. Mi imposi una regoletta: contare mentalmente fino a tre e poi alzarmi e iniziare subito a studiare».
Puerile come metodo, non trova?
«Ma il trucchetto, riconosco abbastanza ingenuo, funzionò».
La scienza è stata una medicina.
«Cura parecchie malattie e tiene alla larga gli imbonitori».
Accennava a suo padre.
«Giovanni Vacca fu una figura complessa, uomo strano, silenzioso, singolare. Fu assistente di Giuseppe Peano».
Il grande matematico.
«Sì, da perfetto casinista mio padre lasciava appunti presi su fogliettini volanti e perfino sulle scatole dei fiammiferi; non ebbe quasi mai cura dei suoi lavori scientifici. Tanto è vero che Peano gli scrisse sollecitandolo a pubblicare le sue ricerche se voleva sopravvivere nella giungla universitaria. La sola cosa di cui si vantò fu la corrispondenza con Bertrand Russell e di aver scritto un libretto sul perché in Cina non si era sviluppata la scienza».
Molte scoperte provengono da quella parte di Oriente.
«Ma non trovarono un adeguato sviluppo a causa del carattere sistematicamente chiuso della Cina. Nonostante questo, o forse in virtù di questa situazione, mio padre divenne sinologo».
Cosa scattò secondo lei nella testa di suo padre? Glielo chiedo perché c’è un precedente illustre: Leibnitz.
«Gli studi di logica matematica e simbolica fatti alla scuola di Peano stimolarono la sua curiosità nei riguardi degli ideogrammi e per questo volle andare in Cina a imparare la lingua».
Ci andò in che periodo?
«Viaggiò in Cina dal 1907 alla fine del 1908. Trascorse più di un anno nella città di Cheng- Tu. E quando tornò in Italia fu il solo caso, che io possa ricordare, di un uomo che insegnava all’università sia logica matematica che sinologia».
Quanto pensa di somigliargli? 
«Per me è stato come un animale mitologico dalle tante facce. Sapeva tantissime cose. Poteva occuparsi delle previsioni delle eclissi lunari nei babilonesi o come gli egizi calcolavano l’area del cerchio. Non aveva limiti il suo sapere. Occupandosi di scienza cinese indagò negli antichi libri di divinazione l’applicazione della numerazione binaria che sarebbe stata, secoli dopo, ripresa da Leibnitz. Quanto gli somiglio? Forse dovrei dire: quanto avrei voluto somigliargli».
Nel senso?
«È stato un sapiente, uno scienziato, a suo modo perfino un platonico: non un inventore ma uno scopritore di verità. Non ebbe tempo per trasmettermi il suo sapere. Era troppo occupato a studiare e a viaggiare. Potrei dire che con il suo esempio mi ha insegnato tutto, ma non mi ha raccontato quasi nulla. Tranne quando ero bambino. Ricordo però una cosa».
Quale?
«Potevo avere quattordici anni. Papà era tornato da uno dei suoi viaggi in Oriente e vide che ero chino su un libro di logica matematica. Tu sai perché un cavallo bianco non è un cavallo? Mi chiese a bruciapelo. Lo guardai pensando che mentisse o che volesse provocarmi. Tacqui, convinto in ogni caso che un cavallo bianco è un cavallo. Ma lui non intendeva riferirsi alla tradizione filosofica occidentale».
A cosa allora?
«Al fatto che la logica cinese si nutre di paradossi. I quali nascono anche in relazione alla composizione degli ideogrammi. L’espressione “cavallo bianco” in cinese si articolava in qualcosa che rendeva unico quel cavallo. L’esempio gli servì per dimostrarmi che la costruzione dei nostri concetti universali è molto diversa dalla loro».
Come reagì a quella lezione improvvisata?
«Pensai che nella vita avrei fatto tutt’altro. Del resto, come lui si era appassionato alla Cina leggendo Marco Polo nella versione di Jules Verne, così io mi lasciai attrarre dalla paleontologia ascoltando la lezione di un grande studioso Alberto Carlo Blanc sull’uomo di Neanderthal. L’infatuazione durò poco. Scelsi ingegneria».
Perché non matematica come suo padre?
«Non ero sufficientemente talentuoso per occuparmi di fisica teorica o di qualche sofisticata branca della matematica. Divenni ingegnere elettronico laureandomi a Roma nel 1951. Da allora ho inventato una discreta quantità di cose. La mia è stata una vita di applicazioni della scienza al mondo. Volevo costruire cose. Il mio primo lavoro fu la costruzione di una linea elettrica per l’energia da Terni a Genova. Poi passai a occuparmi di computer».
Se ne occupò in che modo?
«Studiai tutto quello che era stato prodotto nell’ambito della cibernetica. Nel 1955 fui chiamato a riparare il primo computer scientifico italiano. Un Ferranti Mark, importato dall’Inghilterra. Lo stesso modello su cui aveva lavorato Turing. Era grande quanto una stanza. E fu lì all’Inac, un centro di calcolo, che conobbi Wolf Ross».
Chi era?
«Il più geniale matematico che abbia mai incontrato. Ebreo polacco fuggì dal nazismo e riparò in Italia. La comunità israelitica riuscì a nasconderlo. Parlava un tedesco perfetto. E imparò rapidamente l’italiano. Qualunque problema sorgesse nella teoria dei numeri era in grado di risolverlo. Fu un uomo geniale, stravagante, mentalmente libero, spiritoso con una grande cultura talmudica alle spalle. Il nonno era stato rabbino. Diventammo amici. Fu lui a insegnarmi un po’ di yiddish, fu lui ridendo a umiliarmi a scacchi».
Uno studioso singolare.
«Direi unico, spinto da un sano anticonformismo. Pensai di presentarlo a un altro amico: Rodolfo Wilcock, altro straordinario irregolare. Ma i due non si capirono. Anzi, durante l’incontro che propiziai, non si parlarono proprio. Non si piacquero. In fondo vale la regola che tra due geni uno è sempre di troppo».
Wilcock come lo aveva conosciuto?
«Aveva una rubrica sul Mondo di Pannunzio che firmava Matteo Campanari. Prima di diventare un letterato originalissimo, era stato ingegnere. Mi incuriosivano i suoi articoli e chiesi a Nina Ruffini, segretaria del Mondo, di presentarmelo. Lo conobbi a uno dei tè domenicali che Nina organizzava. Wilcock si presentò con blue jeans e stivali di gomma rossi. Ci capimmo al volo e diventammo amici».
Le piace la parola irregolare?
«Applicata a certe persone è perfetta. Meno ai fenomeni fisici. Wilcock la indossò benissimo. Certe volte, faticosamente andavo a trovarlo in una casa disastrata dove viveva, alla estrema periferia a est di Roma lungo la Prenestina. Appena entravi avvertivi un leggero odore di giardino zoologico. Due enormi maremmani ti venivano incontro con indolenza argentina. Più spesso ci si sentiva per telefono. Parlavamo di tecnologia, di fisica, di letteratura, di economia. Era preoccupato del terrorismo allora montante. Morì di infarto. Fu trovato nel letto, con accanto un libro di cardiologia, il giorno dopo che rapirono Aldo Moro».
Nella sua carriera di scienziato non ha disdegnato la prova letteraria. Sente di esserci riuscito?
«Accanto alla divulgazione scientifica e alla necessità del parlare chiaramente ho inseguito una linea narrativa dove fantascienza e letteratura potessero convivere. Nella convinzione che è buona letteratura anche quella che attraverso l’immaginazione ci parla dei nostri problemi. In un libro come Il medioevo prossimo venturo ho cercato di fare proprio questo».
È stato un grande bestseller.
«Sì, non il più venduto tra i miei libri, ma certamente quello di maggiore impatto. Ricordo la lunga lettera che mi scrisse il mio amico Primo Levi. Era il 1971. Gli avevo spedito il manoscritto. E lui con grande attenzione segnalò i punti di forza e quelli deboli. Tenni conto delle critiche, che mi parevano fondate, eliminando alcune cose dal libro. Ho avuto amici e maestri ebrei».
Chi?
«Vito Volterra, il fisico che fu grande amico di mio padre; Paolo Vita Finzi, che nell’anno in cui nacqui, il 1927, cominciò a scrivere l’Antologia Apocrifa, in cui parodiava i più diversi stili poetici e narrativi; Adolfo Ravà che incontrai a Roma nel 1944 e da cui appresi la forza della cultura ebraica e poi, come ho già detto, Wolf Ross. Ricordo che nell’estate del 1939 da Ponte Vittorio vidi ebrei in costume da bagno che toglievano carriole di terra dalle sponde del Tevere. Seppi che erano stati costretti a svolgere quel lavoro. Pensai a una forma di angheria. Ma fu la porta d’ingresso nelle persecuzioni razziali».
I suoi erano religiosi?
«Mio padre da ateo convinto divenne, di punto in bianco, cattolico. Mia madre se ne disinteressava. Comunque, mi mandarono a studiare in un collegio di gesuiti. Ci sono rimasto per otto anni. Una buona scuola che io presi controvento».
In che senso?
«A sedici anni scrissi un trattatello per dimostrare l’inesistenza di Dio. Lo portai a un giovane gesuita che alla fine mi disse: lascia perdere, non sei portato per la filosofia. Gli risposi: col cavolo!».
Perché suo padre si convertì?
«Fu un po’ una sorpresa. Era un uomo apprensivo. La cosa che mi ha insegnato è che tutto interessa. Quindi anche la religione se è abbracciata senza superstizioni può diventare una strada. Che io non ho mai percorso».
Un po’ come sua madre.
«Mia madre, Virginia De Bosis, figlia di Adolfo, traduttore di Shelley, sorella di Lauro che prima di morire, in un volo senza ritorno, lanciò su Roma quattrocentomila volantini contro il fascismo. Mia madre non fu battezzata e si interessò di filosofia islamica. A 18 anni accettò di andare come au pair presso il professor David Santillana, uno dei massimi studiosi di diritto islamico. Insegnava al Cairo. Fu lì che Virginia apprese i primi rudimenti di arabo e divenne amica del figlio Giorgio Santillana».
Dopo di allora cosa fece sua madre?
«Tornò in Italia, conobbe mio padre e si sposarono. Continuò a occuparsi di cultura araba. Fu lei a dare i primi rudimenti di arabo ad Alessandro Bausani che abitava nello stesso nostro palazzo in via Ruggero Bonghi».
Credo sia di Bausani la migliore traduzione del Corano.
«Divenne un punto di riferimento autorevole per gli studi di islamistica. Era un uomo incredibile. Conosceva una trentina di lingue. Fu uomo modesto e ineguagliabile. Mi passava dei suoi scritti che ho conservato. Ho ritrovato una sua nota in cui si diffondeva sui rapporti tra l’astronomia e il culto di Mitra».
Sorprendono tutte le storie che è riuscito a incrociare e a vivere. Si è mai annoiato?
«Non ho fatto cose noiose. Ma la noia mi è stata maestra di vita. Mi ha spinto a leggere tutto. A interessarmi di tutto. E ora che sono vecchio la ringrazio».
La vecchiaia per lei è sinonimo di cosa?
«Di corpi che si deteriorano e sempre più difficilmente si riparano. Sono un vecchiaccio maledetto. Ho scritto un libro per sconfiggerla».
Come si giudica?
«Come uno che ha capito molte cose, cui resta poco tempo per il resto».
Ha calcolato la data della sua morte. Da scienziato a Cagliostro?
«Cagliostro pensò di essere eterno e fece una brutta fine. Nessun paragone reggerebbe in tal senso. Quello che ho calcolato sono una serie di curve matematiche che misurano la creatività. Si viene meno quando si tocca il picco di 95 su 100. È un calcolo complicato. Ma spero di essermi sbagliato. Quattro anni di vita ancora mi sembrano un po’ pochi».