la Repubblica, 28 gennaio 2018
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Dipingere le note
Nel 1901 esce a Londra un piccolo libretto destinato ad un grande successo nei circoli teosofici europei. Scritto da Annie Besant e C.W. Leadbeater, si intitolava Forme pensiero, e conteneva un lungo elenco di figure astratte, (triangoli, cerchi, frecce, stelle e molto altro) tutte coloratissime: forme che esprimevano emozioni e pensieri umani. Si trattava forse del primo codice dell’invisibile nato nel nuovo secolo, che vide tanti artisti attratti dai salotti esoterici di Madame Blavatsky. Ma i due teosofi non si accontentarono di stilare questo inedito elenco: disegnarono anche le composizioni viste dai chiaroveggenti ascoltando sinfonie di Mendelsohn, Bach, Wagner. E i risultati sono stupefacenti: non sappiamo se Kandinsky abbia mai sfogliato quell’opuscolo – che comunque fu tradotto in tutte le lingue europee- ma certo quei disegni assomigliano moltissimo ai suoi acquerelli astratti che nasceranno qualche anno dopo. Era nell’aria. Il 900 si apriva con questa grande missione: quella di rinnovare l’arte, liberare la figurazione dagli obblighi dell’imitazione naturalistica per far esplodere tutta la potenza espressiva e spirituale di ogni forma e colore. E per questo i pittori cercavano una corrispondenza con la purezza dei suoni. Frequentavano musicisti, si scambiavano lunghi epistolari, sognavano di realizzare opere in comune. È il tema di Kandinsky- Cage, musica e spirituale nell’arte che è in corso a Reggio Emilia a Palazzo Magnani, a cura di Martina Mazzotta, e che dimostra come non ci sia bisogno di avere opere di grande formato per allestire una grande esposizione: basta avere una buona idea, e anche piccole carte e incisioni basteranno a restituirci un clima culturale che altrimenti andrebbe perso.
Gli artisti cercavano dunque affinità elettive, strade comuni e parallele. E spesso, anzi, coltivavano le due passioni, la pittura e la musica, contemporaneamente.
È il caso di Ciurlionis, ad esempio, il compositore lituano che passava molte sue giornate perdendosi in acquerelli raffiguranti paesaggi aerei e trasognati: li chiamava con nomi musicali, come Sonate o Scherzi.
Ed è bello qui vederli ascoltando in sottofondo le sue composizioni. Perché è questa l’idea che rende emozionante la mostra: molti lavori, grazie a diffusori poco invasivi, sono accompagnati dalla colonna sonora che più si addice loro. Si restituisce così allo spettatore un paesaggio visivo e musicale che rappresentava il tessuto culturale dell’epoca. Doppia fu anche la passione di Arnold Schönberg, il padre della musica dodecafonica che ispirò – suo malgrado – il Thomas Mann del Doktor Faustus e fu anche pittore: qui viene accompagnato non dalle sue invenzioni atonali ma dall’Adagietto della Quinta di Mahler, che ben si fonde con l’impasto coloristico così denso dei suoi olii. Sono in tutto undici i pittori rappresentati, da Max Klinger, con le sue Brahms- Phantasie, a Marianne Werefkin che soggiornò nell’eccentrica comunità del Monte Verità, da Oskar Fishinger, che collaborò a Fantasia di Disney, a Nicolas De Staël. Ma la parte del leone la fa naturalmente Kandinsky, che tanto insistette sulle qualità musicali della pittura: «Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima il pianoforte dalle mille code». Lo accompagnano le musiche di Schönberg, di Webern, di Mussorsgsky. E con lui spicca il suo amico Paul Klee peraltro un colto e appassionato violinista – che confessava ai suoi diari: «Solo con la musica sono stato sempre in buoni rapporti». E infine ecco Fausto Melotti, al quale peraltro viene dedicata al castello di Miradolo una retrospettiva analoga (Quando la musica diventa scultura, fino all’11 febbraio) : si vede che l’argomento s’impone. D’altronde forse nessuno come lui è riuscito a mettere nello spazio forme che risuonano come pure note, chiare e leggere, in opere che evocano contrappunti e canoni di Bach. E infatti è un brano dell’Arte della fuga a fargli da perfetto sottofondo. Il gran finale è dedicato a John Cage, lo sciamano della musica come esperienza totale, il sacerdote di ogni rumore e il signore del silenzio, che seppe mandare in scena un pianista a non suonare per 4 minuti e 33 secondi. In mostra ci sono molti dei suoi spartiti: impossibili ma bellissimi da vedere, vere opere concettuali. Magnifico, ad esempio, quello dedicato al più famoso giardino zen di Kyoto, Ryoanji, le cui tredici pietre hanno appassionato schiere di studiosi. Lo spartito è una sorta di carta geografica sonora che racchiude lo spirito d’Oriente.