la Repubblica, 28 gennaio 2018
La musica é cambiata
Il re dello streaming, dall’alto dei sui trentaquattro anni, dispensa pillole di saggezza via Twitter: “Non c’è nessuno fra quelli che ammiro che non sia mosso dall’insicurezza”. O ancora: “Non si tratta di combattere il vecchio, ma di costruire il nuovo”. Daniel Ek, “padre” di Spotify oltre che di due bambini, è uno schivo ragazzone svedese. Cresciuto nei sobborghi di Stoccolma, un anno fa è asceso però a “uomo più potente del business discografico” per la rivista Billboard. Ma già nel 2016 negli Stati Uniti la “musica liquida” valeva il cinquantuno per cento del consumo di brani e album e Spotify dominava il settore. Il contagio di libri, film, serie tv era avvenuto ancor prima: addio carta, dvd e vinile, si possiede ( o si “scarica”, download) sempre di meno e si condivide, in streaming, sempre di più. A partire dal 2008 l’idea stessa di palinsesto ha cominciato a essere messa in discussione quasi ovunque. Di questa rivoluzione, Ek è la mente più che il volto: le interviste rilasciate si contano sulle dita di una mano. In futuro dovrà concedersi di più. La sua azienda, racconta l’Economist, si prepara a sbarcare in borsa con una strana Ipo (initial public offering): non passerà per le banche né per gli agenti come di consueto, raccoglierà i fondi direttamente dagli investitori tagliando fuori i grandi nomi della finanza. È la prima volta che capita al New York Stock Exchange che Ek ha preferito al Nasdaq, l’indice dei titoli tecnologici. L’ennesima scelta stravagante.
“Ho sempre fatto cose impossibili”, confessò nel 2012. Quando Google scartò il suo curriculum, si disse: “Mi costruirò un mio motore di ricerca. Non sarà poi così difficile”. E invece era molto difficile. “Sono abbastanza naïf da pensare che una soluzione verrà sempre fuori, senza comprendere quanto le cose siano a volte complicate”. Eppure Ek è riuscito a cavarsela sempre bene. Spotify è stato il primo servizio di streaming a occupare la scena mondiale. Accusato di uccidere la musica, una crociata guidata da Thom Yorke dei Radiohead che poi ha fatto marcia indietro, ha combattuto e vinto contro Apple: l’ha costretta a cambiare agenda e affiancare a iTunes un servizio identico a Spotify chiamato Apple Music. E l’ha trascinata in tribunale per concorrenza sleale. La quota del trenta per cento che pretende da tutte le transazioni sul suo App Store, compresi gli abbonamenti di Spotify, favorirebbe Apple Music che non la paga. La guerra dello streaming, l’hanno chiamata, anche se in realtà va ben oltre. Già il nome tradisce lo scopo dell’impresa: leggenda vuole che Spotify sia una crasi scelta da Ek tra “spot”, e quindi la pubblicità anima di ogni commercio, e “identify”, gli algoritmi che permettono in base ai brani che ascoltiamo di proporci alternative su misura a getto continuo.
“L’intera industria musicale conta fra i quattordici e i quindici miliardi di dollari in vendite”, ha spiegato Ek. “Ora guarda alla radio: negli Stati Uniti da sola ha un fatturato di circa sedici miliardi e globalmente è di circa ottanta miliardi. Trasferisci il comportamento della radio all’online e avrai un settore musicale che è molto più grande di quanto sia mai stato. Se poi aggiungi gli abbonamenti si arriva a un’industria da cento o centosessanta miliardi”. Un termine di paragone? Il mercato della pubblicità online, il regno di Google, ha da poco superato i duecento miliardi.
Daniel Ek ha iniziato presto e per caso. A tredici anni passava troppo tempo davanti al pc, come tanti suoi coetanei, ascoltando i Joy Division. Gli chiesero di costruire un sito web e lui domandò l’equivalente di cento euro. La seconda passò a duecento, l’anno dopo la parcella era arrivata a cinquemila. Assunse coetanei che pagava in videogame per allargare le operazioni. Quando i genitori lo videro tornare a casa con un televisore gigantesco si resero conto che aveva preso una deriva interessante: guadagnava già cinquantamila euro al mese. Decisero di cambiare casa per dargli più spazio. A diciotto anni gestiva venticinque persone e a ventitré aveva venduto la sua compagnia Advertigo per circa un milione di euro. Comprò una Ferrari, si gettò nella bella vita, entrò in depressione. Tornò a vivere nei sobborghi vicino ai genitori. “Avevo sempre voluto trovare il mio posto, pensavo che ci sarei riuscito facendo soldi. E invece non avevo idea di come volevo vivere la mia vita”, ha ammesso. Altri a quelle latitudini ci sono passati e non ne sono usciti. Markus Persson, svedese pure lui, dopo aver venduto Minecraft alla Microsoft per due miliardi e mezzo di dollari è entrato in crisi e lì è rimasto, con un patrimonio personale da centinaia di milioni. Daniel Ek invece ha incontrato l’imprenditore Martin Lorentzon, classe 1969, che lo ha raccolto, aiutato e con il quale ha fondato Spotify ormai valutata fra i sedici e i venti miliardi di dollari. Quanto Twitter, ma meno di Netflix che vale cinque volte tanto. Per non parlare di Facebook dell’amico Mark Zuckerberg, che gioca in un altro campionato avendo superato i cinquecento miliardi.
Ma Ek la guerra dello streaming la vuole vincere ed è ancora a metà dell’opera. A dicembre c’è stato lo scambio di azioni col colosso cinese di Tencent, lo stesso di WeChat, aprendo così un varco all’immenso mercato interno di Pechino chiuso ermeticamente all’esterno. Apple ha risposto acquisendo Shazam, che oltre a riconoscere una melodia vende anche biglietti di concerti, mentre YouTube ha fatto sapere di esser in procinto di lanciare un nuovo servizio chiamato Remix per cercare di mettere un piede nello streaming a pagamento. Intanto Spotify è in testa coi suoi centoquaranta milioni di utenti in sessantuno paesi. Settanta milioni di loro pagano 9,99 euro al mese per fruire i trenta milioni di brani senza limiti né pubblicità. È il cinquanta per cento circa degli abbonamenti di questo settore. Apple Music non arriva a un terzo. Ancor più indietro arrancano Amazon, Deezer, Pandora.
“Molte persone conoscono Daniel come uno dei grandi imprenditori europei”, ha scritto Zuckerberg su un ramo del lago di Como. “Io lo conosco come un grande amico e un padre premuroso”. I promessi sposi Daniel e Sofia, assieme da una vita, si sono uniti in matrimonio a fine agosto del 2016 sulle note di Bruno Mars e alla presenza dell’amico Mark che poi sarebbe arrivato a Roma in visita ufficiale ricevuto come un imperatore d’altri tempi. Il regno del ragazzone di Stoccolma è più piccolo ma progetta di allargarsi. Ha assunto Courtney Holt rubandolo alla Disney dove gestiva i Maker Studios, gigante dei contenuti su YouTube che ha nella sua scuderia svedesi tutt’altro che schivi del calibro di Pewdiepie, per curare la parte video di Spotify. Spotlight, nuova forma di racconto imparentata con gli audio libri in forma visuale, è opera sua. Dal primo febbraio va in scena negli Stati Uniti. E poi, ancora, si parla di dare la possibilità agli artisti di vendere merchandising, dai vestiti al loro make up, facendo diventare il servizio streaming una piattaforma di distribuzione di tutto quel che ruota o potrebbe ruotare attorno alla musica. Spotify spera così di convincere gli scettici che non la sta uccidendo definitivamente ma anzi la vuol far diventare grande. “A volte devi finire più in basso di quanto tu sia mai stato, per alzarti più in alto di quanto non sia mai stato”. Daniel Ek e le sue pillole di saggezza che presto, in borsa, potrebbero diventare perle.