la Repubblica, 28 gennaio 2018
La guerra per il comando nel fronte della Jihad
Che succede in Afghanistan? Tre devastanti attacchi terroristici in una settimana: quello all’Hotel Intercontinental a Kabul, rivendicato dai Taliban; quello contro l’organizzazione umanitaria Save the Children a Jalalabad, del quale si è assunto la responsabilità lo Stato Islamico. Ora un nuovo attentato nella capitale, ancora opera dei Taliban.
Una campagna di fuoco che segnala l’incapacità delle forze di sicurezza afgane, nonostante l’addestramento degli occidentali, di controllare il territorio: compreso il nevralgico centro della capitale. Solo nel 2016 le forze di Kabul hanno avuto migliaia di caduti e feriti. A dimostrazione che, per stabilizzare un Paese dilaniato da quasi quarant’anni di guerra, e segnato da profonde fratture etiche e religiose oltre che dagli interessi dei protagonisti regionali e globali che si scontrano nell’area, serve un disegno politico praticabile oltre che l’uso delle armi.
Un problema non irrilevante per il futuro. Anche perché la nuova dottrina strategica americana, varata dai generali che hanno crescente peso nell’amministrazione Trump, sembra considerare l’impegno contro il radicalismo jihadista di minore rilevanza rispetto a quello verso i grandi competitori strategici come Cina e Russia o nei confronti di stati “problematici” come l’Iran. Un disimpegno che, in taluni scenari geopolitici, Afghanistan compreso, lascia presagire un rafforzamento del radicalismo islamista.
Vi è poi la feroce concorrenza tra i gruppi rivali, come Al Qaeda e l’Isis, autori di attentati dall’alto impatto simbolico destinati a colpire non solo il Nemico occidentale ma anche a ridefinire l’egemonia politica e militare in campo islamista.
I Taleban sono tornati pesantemente all’azione, nel 2017, per mostrare chi è il vero alfiere della jihad e rintuzzare, così, la penetrazione dell’Isis che, oltre a reclutare tra i foreign fighters centroasiatici, punta a arruolare tra i pasthun, tradizionale bacino etnico dei seguaci del movimento fondato dal Mullah Omar. Le fiamme di Kabul, attizzate dai Taliban, mirano anche a far capire ai fratelli-rivali chi detiene il bastone del comando nel campo della jihad. Insomma, una duplice guerra quella islamista radicale ai piedi dell’Hind Kush: per battere il Nemico esterno e interno e ridimensionare il sempre più audace, e contiguo, rivale ideologico.