la Repubblica, 28 gennaio 2018
Da Sacks a Mina la playlist dell’inconscio
Musicofilia, la raccolta di racconti di Oliver Sacks su musica e cervello, inizia con una storia tratta da un romanzo di fantascienza di Arthur C. Clarke. Dove i Superni, alieni intelligenti ma insensibili alla musica, si dedicano allo studio di noi umani senza comprendere perché dedichiamo tanto tempo ad ascoltare, eseguire, comporre musica. Una cosa così evanescente e, soprattutto, inutile. Se l’astronave fosse atterrata tra i kaluli di Papua Nuova Guinea, forse i Superni avrebbero avuto qualche elemento in più. Infatti, racconta Steven Feld in un sorprendente trattato di etnomusicologia ( Suono e sentimento), i kaluli rielaborano con la musica i flussi sonori della natura e le modulazioni del canto degli uccelli. Da lì nasce il sentimento della comunicazione sonora.
Se mindscapes è un neologismo per evocare l’incontro visivo tra psiche e paesaggio – i luoghi che cerchiamo nel mondo per dare sostanza e immagine a qualcosa che è già in noi – potremmo chiamare soundscapes quei paesaggi sonori che danno forma acustica ai nostri stati mentali. Suoni che, mentre li scopriamo nel mondo, ritroviamo in noi stessi. Teorizzati dal compositore canadese Murray Schäfer, i soundscapes compongono il nostro mondo acustico. Che non è necessariamente artistico o musicale, può essere fatto di voci e di silenzio. Un silenzio che possiamo ascoltare.
Anche se esistono (rari) umani che, come i Superni, forse mancano dell’apparato neurale per apprezzare suoni o melodie, su tutti gli altri la musica esercita un potere enorme. Eccita e deprime, accarezza la memoria e la ferisce, irrita e diverte. Non posso ascoltare l’aria del nodo avviluppato dalla Cenerentola senza entusiasmarmi ridendo. Ogni volta che sento Città vuota mi struggo di nostalgia e ammirazione per il capolavoro sonoro e sociale che Mina è stata per il nostro Paese e per la mia adolescenza. E quando sento i preludi di Chopin mi commuovo perché sono entrati nel mio paesaggio sonoro quando ero bambino e mia madre li suonava al piano.
A partire dalla “straordinaria tenacia della memoria musicale”, i paesaggi sonori dell’infanzia rimangono, dice Sacks “incisi nel cervello”. Non c’è musica senza inconscio e non c’è inconscio senza memoria. William Styron ( Un’oscurità trasparente) racconta che fu un brano della Rapsodia per contralto di Brahms a salvarlo dal suicidio: “Questo suono, che, come ogni forma di musica, anzi, di piacere, mi aveva lasciato indifferente per mesi e mesi, trafisse il mio cuore come un pugnale, e mi sommerse all’istante una marea impetuosa di ricordi, tutte le gioie che quella casa aveva conosciuto”.
Priva com’è di “significato”, la musica non veicola concetti né formula proposizioni, ma lavora in profondità nella neuropsiche. Scrittura che raggiunge gli analfabeti, visione che tocca i non vedenti, innesca l’immaginazione, s’immerge nella memoria, s’infila nella solitudine. Portando con sé il suo paradosso: lo stesso spartito che evoca il dolore produce, al tempo stesso, la consolazione.
Il bisogno di musica che una volta ci spingeva a costruire artigianali compilation su musicassette, oggi ci vede competenti collezionisti di playlist. L’effetto psichico della musica (la fedeltà della sua compagnia; la capacità, esasperata dagli auricolari, di creare un mondo a parte; la tenuta ermetica della bolla sonora con cui ci avvolge e protegge) è potente fino alla dipendenza. Effetti così importanti non possono che guidare le nostre scelte musicali. Che oggi, grazie alla duttilità pervasiva delle fonti sonore, cerchiamo di governare, essendone talvolta governati.
Ci sono musicofili onnivori e melomani sofisticati, dodecafonici autistici e canzonettari enciclopedici. E fragili allergici: “Non posso ascoltare il jazz”, mi dice un paziente ossessivo, “è senza contorni, non sai dove va, e per questo mi angoscia”. Per Theodor Reik, psicoanalista austriaco e collaboratore di Freud, le “melodie che scorrono nella mente” possono fornire all’analista indizi che conducono ai segreti della vita emotiva: “la musica che accompagna il nostro pensiero cosciente non è mai accidentale”. È questo il segreto di Spotify e dei suoi milioni di utenti? Il tentativo di costruire il proprio soundscape? L’illusione di governarlo, imprimerlo nella memoria per diffusione ambientale? E il segreto del nostro soundscape saprà difendersi dalla ripetizione e dal facile accesso? Dalla finta confidenza di sottofondi sonori gradevolmente imposti? Corriamo il rischio, nonostante lo streaming sia on demand, di scegliere sempre meno e di ricevere, lisciati dalla comodità, ghirlande prêt- à- porter di ricordi musicali. Se l’ombra dei mindscapes sono i non-luoghi, è possibile che sulla storia personale e collettiva dei nostri soundscapes si allunghi l’ombra di non- musiche. Che proprio nei non-luoghi hanno facile diffusione: sale d’aspetto, lounge bar, ristoranti griffati. E se il vinile fosse una riappropriazione del proprio paesaggio sonoro?
Anche quando non suona e si limita ad accompagnarci nel dormiveglia di un ricordo, la musica cura, e talvolta guarisce. Studi scientifici raccontano il lavoro di riparazione neurologica e psichica che la musica promuove nel nostro cervello. I parenti accendono registratori al capezzale di pazienti comatosi per risvegliarli al mondo con le impronte sonore dei ricordi. Future madri appoggiano sorgenti musicali sulle loro pance gravide: ben prima che fiorisca il linguaggio intoneranno cantilene come musiche primordiali dei kaluli.