la Repubblica, 27 gennaio 2018
Quella fuga da Alcatraz che (forse) riuscì
WASHINGTON Il mio nome è John Anglin e sono fuggito da Alcatraz». La mano incerta che scrive dalla notte dell’evasione più celebre della storia, la Fuga da Alcatraz, riapre il romanzo dei soli tre uomini che siano riusciti a sfuggire alla fortezza nella baia di San Francisco e a sopravvivere.
Per l’Fbi è una lettera dall’oltretomba. Per i nipoti è la prova che lui, suo fratello Clarence, il complice Frank Lee Morris riuscirono realmente a fare l’impossibile, a fuggire da Alcatraz nel giugno del 1962 e scomparire.
«Il mio nome è John Anglin, ho 83 anni e sto morendo di cancro» gratta ondeggiando la mano su un foglio di carta giallina recapitato alla famiglia e poi alla polizia di San Francisco nel 2013 e tenuta finora nascosta per l’inestinguibile imbarazzo delle autorità locali e federali di fronte all’unica macchia nella reputazione feroce di Alcatraz.
Una lettera adesso resa nota da una tv californiana. Anglin, come i suoi due compagni di fuga, è ufficialmente morto, classificato come «presunto annegato» nella traversata fra l’isola della fortezza e la costa, inghiottito dalla corrente rapinosa della baia e dai 10 gradi di temperatura dell’acqua. Ma nella realtà, gli Us Marshals, l’agenzia dei cacciatori di evasi, non ha mai smesso, in più di mezzo secolo da quella notte, di cercarli. Le loro foto, ritoccate per invecchiarli e immaginare il loro aspetto cinquantasei anni dopo, sono ancora nell’albo dei fugitives, dei fuggiaschi.
Era la notte dell’11 giugno 1962, circa le 23, quando i fratelli Anglin e Morris, il “cervello” dell’operazione che nel film Clint Eastwood avrebbe interpretato, si lanciarono nella loro missione folle, quella che era costata la vita ai trentasei che nel passato, dal 1933 a quel giorno, l’avevano tentata, quella aveva visto uno scontro a fuoco con i Marines e un solo sopravvissuto alla traversata.
Era stato un detenuto trovato assiderato sulla spiaggia e riconsegnato alle autorità. Per sei mesi, i tre avevano lavorato al loro piano con certosina precisione e ingegneristica costanza.
Si erano fabbricate, con sapone e carta igienica impastati insieme, tre teste con vaga rassomiglianza a loro, da poggiare sul cuscino, per ingannare le guardie nelle notti mentre lavoravano. Avevano fatto incetta di impermeabili, che si facevano portate da amici e parenti, inspiegabilmente, fino a collezionarne cinquanta. Da un aspirapolvere rotto e abbandonato tra la spazzatura, avevano recuperato il motorino per forgiare un trapano elettrico, con il quale svitare le griglie dei condotti di areazione e allargarli, mentre Clarence suonava una concertina, una piccola fisarmonica, per coprire il rumore, quella fisarmonica che avrebbero usato come mantice per gonfiare il gommone costruito cucendo insieme i cinquanta impermeabili dopo essere scivolati verso la riva dal passaggio per la lavanderia al molo.
In qualsiasi altro carcere federale, dunque amministrato dal governo per criminali ad alto rischio, questo traffico di impermeabili, questo consumo mostruoso di saponi e carta igienica, questo gran pompare di fisarmonica nelle ore della notte avrebbe sollevato più di un sospetto, ma non ad Alcatraz, dove persino Al Capone, ospitato qui, aveva ammesso di essere stato “domato”. Non nell’“Isla de los Alcatraces”, dei pellicani, come l’avevano battezzata gli esploratori spagnoli, che gangster come John “Machine Gun” Kelly e Robert Stroud, assassino multiplo divenuto famoso come “l’Uomo degli Uccelli”, avevano abitato fino alla fine della loro vita. I tre chilometri di mare gelido agitati da correnti violente erano le sbarre che nessun prigioniero avrebbero mai potuto segare.
Oggi, gli atleti del triathlon lo attraversano regolarmente, attrezzati e allenati. Non nel 1962.
Ma all’alba del 12 giugno, dei tre fuggitivi non fu trovata più traccia, né in mare né sulle coste.
Si erano dissolti nella nebbia che in giugno, al mattino e alla sera, spesso inghiotte la baia. E ogni Natale, Wendy, la figlia del direttore di Alcatraz, che chiuse l’anno dopo la fuga, nel ‘63, riceveva auguri firmati da uno dei tre. Prova di nulla, altro che della continuità del mistero.
I nipoti di John Anglin, rapinatore seriale di banche, ma non assassino, sono persuasi che lo zio ottantenne fosse vivo, nel 2013 quando scrisse la lettera per offrire allo Fbi uno scambio: «Se mi date le cure mediche delle quali ho bisogno, mi consegno ai Marshal per fare un anno di detenzione». Dicono di sapere che il fratello Clarence sia morto, mentre nessuno ha neppure voci su Morris, il cervello, il “Clint Eastwood”, genio che risultava fra l’uno per cento della popolazione nei test di intelligenza. «Volevo farvi sapere che tutti e tre ce la facemmo – scrive la mano del vecchio – giusto per un pelo».
La fortezza di Alcatraz, abbandonata per i costi altissimi di mantenere e rifornire un penitenziario isola che aveva in gabbia 260 detenuti, è oggi un’attrazione turistica che richiama più di un milione di visitatori all’anno e ha, nella cella che appartenne a John Anglin, la sua principale meta, insieme con quella di Al “Scarface” Capone.
Naturalmente, i custodi e i visitatori sostengono che nella notte, soprattutto quando la nebbia irrompe sulla baia e divora l’isola, le celle si popolano di spettri, ma è un banale trucco di marketing. I fantasmi non scrivono lettere.