la Repubblica, 27 gennaio 2018
A lezione di memoria studiando Star Wars
Settantatré anni fa i settemila prigionieri rimasti nel campo di concentramento di Auschwitz furono liberati dall’Armata rossa. Subito prima di fuggire i tedeschi fecero saltare le camere a gas e i forni crematori ancora attivi. Riuscirono ad evacuare più di 100mila prigionieri all’interno della Germania per continuare a destinarli ai lavori forzati.
I sopravvissuti hanno dedicato la vita intera alla testimonianza in nome delle vittime. Ormai Primo Levi, Elie Wiesel, W?adys?aw Bartoszewski, Israel Gutman, Simone Weil, Imre Kertész e molti altri non sono più tra i vivi. Noi della generazione del Dopoguerra restiamo sempre più soli con il fardello della loro esperienza e sarebbe difficile negare che siamo tuttora incapaci di gestirlo adeguatamente. Tutto il mondo moderno vive sempre più come se la tragedia della Shoah e dei campi di concentramento non fosse stata di grande insegnamento. In teoria il mondo intero avrebbe dovuto cambiare aspetto dopo la guerra. Su scala globale si istituirono organi di cooperazione, come le Nazioni Unite. In Europa occidentale si sviluppò notevolmente il processo di unificazione di stati, nazioni e società che è noto oggi come Unione europea. Fu esteso l’ambito dei crimini contro l’umanità riconosciuti e l’Onu elaborò la definizione del reato di genocidio. Oggi vediamo che queste iniziative post-belliche, per quanto appaiano legittime e ben ponderate, non reggono alla prova del tempo. Siamo incapaci di una reazione efficace alle nuove manifestazioni del delirio genocida.
La fame e la morte frutto dei continui conflitti tra diversi gruppi in Africa centrale non sono considerate priorità dai nostri governi. Il commercio di armi e lo sfruttamento di una manodopera praticamente gratuita travolgono le regioni più povere del mondo. L’Onu ha smesso di garantire qualsiasi speranza.
L’Unione Europea è divorata dall’apatia interna. Al contempo le nostre democrazie soffrono della crescita del populismo, dell’egoismo nazionale e di nuove forme estreme di incitamentio all’odio. Siamo davvero cambiati così tanto nelle ultime due o tre generazioni?
Prima di incontrarci tra due anni per celebrare il settantacinquesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, faremmo bene a porci qualche domanda per far sì che questa giornata non si trasformi nell’ennesima commemorazione, con le solite frasi fatte associate alle immagini familiari dell’architettura del campo con l’intento di commuovere. Cosa sta succedendo al nostro mondo? Cosa sta succedendo a noi? La memoria non è più un dovere? Se è vero che la speranza è l’ultima a morire, su cosa deve fondarsi se non sulla memoria?
Davvero dobbiamo dare la colpa della nostra superficialità nel rinsaldare il bene all’assenza di una visione? La penuria di statisti legittima l’ascesa di voci non abbastanza mature da assumersi le proprie responsabilità? Sono ormai i risultati dei sondaggi di opinione e i social media a dettare permanentemente le nostre scelte?
Riusciamo realmente a soffocare il nostro senso di responsabilità oggettiva e tangibile standocene seduti tranquilli, dietro la porta della nostra “incapacità di agire” anche di fronte alle più immani tragedie? C’è ancora posto per la commemorazione delle vittime in una cultura che cerca di vivere priva della consapevolezza della morte?
Dato che la scuola è palesemente e assurdamente inadeguata alle problematiche moderne, perché non riusciamo a darle un senso diverso? È davvero giustificato il rapporto tra il numero di ore di matematica e quelle dedicate all’ etica; all’uso consapevole dei mass media; all’educazione civica e alla conoscenza delle minacce interne alla società; alla capacità di organizzare l’opposizione civile; agli strumenti per creare progetti di assistenza? Davvero vogliamo costruire il nostro futuro sugli integrali? Perché la storia che insegniamo si limita allo studio in sicurezza del passato, nonostante le corrispondenze con le circostanze attuali, senza porre alcuna chiara correlazione con il mondo di oggi e un futuro sempre più incerto?
Non abbiamo intenzione di rispondere in prima persona a queste domande. E non importa cosa sta accadendo in Congo, Myanmar o nel quartiere o nello stadio vicino a casa nostra. Questo non cambia il fatto che i nostri figli – che sono apparentemente il futuro di tutto ciò che dovrebbe starci a cuore – imparano più cose riguardo al sacrificio, alla dignità, alla responsabilità o agli ideali dal nuovo film di Star Wars di quante ne apprendano da noi a scuola. L’apatia ci ha colto non perché non individuiamo grandi visioni per il futuro ma perché abbiamo nascosto l’immagine del nostro passato condiviso, comune – persino il più recente. Questa apatia oggi – forse per la prima volta nella storia dell’umanità – è talmente profonda che nel valutare lo sviluppo degli eventi in tanti luoghi, remoti e vicini a noi, facciamo fatica a distinguere ciò che ancora è pace da ciò che è già diventato guerra. Non esiste più corrispondenza tra memoria e responsabilità. Tutta la nostra civiltà oggi è, per sua espressa volontà, privata della sua stessa esperienza.
Vogliamo Auschwitz sui libri di storia? O sarebbe meglio spostarla all’ora di matematica?
Traduzione di Emilia Benghi