La Lettura, 28 gennaio 2018
Carlo I non c’è più, la sua collezione sì
Fu la più grande collezione d’arte mai messa assieme sul suolo inglese. Dispersa nelle tempeste belliche e politiche del Seicento, è stata ricomposta (almeno in parte) dopo 370 anni nelle sale della Royal Academy of Arts di Londra: si tratta dei dipinti e delle sculture ammassati da Carlo I durante il suo regno, che durò dal 1625 al 1649. Il sovrano venne deposto e decapitato dai rivoluzionari repubblicani di Oliver Cromwell durante la guerra civile e la sua collezione messa in vendita per ripagare i debiti dello Stato.
Una volta restaurata la monarchia, suo figlio ed erede Carlo II riuscì a recuperare molte opere, che oggi formano il nucleo della collezione di Elisabetta: ma tante altre sono rimaste sparpagliate nei musei d’Europa, dal Louvre al Prado, nonché in collezioni private. «Abbiamo lavorato cinque anni per mettere assieme questa mostra – raccontano i curatori della Royal Academy – e per noi si tratta dello show dei sogni. Quest’esposizione documenta l’impatto decisivo che ebbe sul gusto artistico inglese la collezione reale, costruita da un sovrano che riuscì a coltivare l’amore per l’arte pur in tempi tanto travagliati, dai conflitti di religione alla Guerra dei trent’anni».
La raccolta di Carlo I, alla fine del suo regno, era arrivata a comprendere 1.500 dipinti e 500 sculture. Di questo corpus circa 150 opere sono in mostra a Londra: 90 prestate dalla regina Elisabetta e il resto proveniente dall’estero. «Stiamo cercando di costruire un database di tutta la collezione – spiegano alla Royal Academy – perché di molti quadri e sculture ancora non si sa che fine abbiano fatto».
La stessa genesi della raccolta di Carlo I ha qualcosa di romanzesco. Nel 1623, due anni prima della sua ascesa al trono, l’allora principe di Galles si recò in Spagna in incognito per cercare di combinare le proprie nozze con l’infanta Maria Anna. L’obiettivo era allentare le tensioni fra l’Inghilterra protestante e la Spagna cattolica e promuovere la pace in Europa. Ma la spedizione fu un fiasco: l’arrivo a sorpresa degli inglesi mise in imbarazzo gli spagnoli, i cortigiani di Carlo litigarono con i ministri di Madrid e dopo otto mesi il principe di Galles fu costretto a ripartire senza moglie. Tuttavia non tornò a Londra a mani vuote: con sé portava quattro dipinti di Tiziano, uno ciascuno del Veronese e del Correggio, una scultura del Giambologna e forse anche un proprio ritratto ora perduto realizzato da Velázquez. Ma soprattutto il futuro Carlo I, ammirando la splendida collezione dei sovrani spagnoli, aveva capito quanto fosse importante, per proiettare il potere e il prestigio della monarchia, circondarsi di preziose opere d’arte.
Una volta salito al trono, Carlo si propose di emulare la raccolta di quadri che aveva visto a Madrid. E ci riuscì così bene che Rubens lo definì più tardi «il più grande amante della pittura fra i principi del mondo». Si diede ad acquistare opere d’arte personalmente (cosa insolita per un sovrano) e attraverso una rete di agenti sguinzagliati per l’Europa. Il suo gusto era orientato principalmente al Rinascimento italiano e in questo modo riuscì ad aprire la cultura inglese a qualcosa di nuovo.
Il colpo grosso di Carlo fu l’acquisizione della collezione Gonzaga, appartenente ai duchi di Mantova. I signori italiani, oberati dai debiti, acconsentirono a vendere più di 130 dipinti, 90 statue classiche e 190 busti che vennero trasportati a Londra in tre tranche. L’acquisto fece decollare la raccolta reale: arrivarono in Inghilterra i nove grandi pannelli del Trionfo di Cesare di Mantegna, quadri di Raffaello, Correggio, Caravaggio, Veronese. Ma il trasporto non fu senza problemi: dipinti di Tiziano e Tintoretto vennero danneggiati dal mercurio che faceva parte del carico delle navi salpate dall’Italia. E l’acquisto della collezione Gonzaga si scontrò anche con critiche politiche: gli elementi più puritani della corte denunciarono le influenze «cattoliche e idolatre», un tentativo di «sedurre lo stesso re con immagini e vanità». E molti non apprezzarono il modo in cui venivano impiegate le risorse pubbliche.
Oltre a importare opere d’arte, Carlo si mise pure a importare artisti. Anche qui aveva imparato dalla corte spagnola quanto fosse importante avere un rapporto privilegiato con un grande pittore (in quel caso Tiziano): il prescelto di Carlo fu Anthony van Dyck, nominato ufficialmente «pittore principale al servizio di Sua Maestà». I ritratti opera di van Dyck costituiscono il fulcro della mostra alla Royal Academy: il sovrano, che era un piccoletto con le gambe storte, si erge maestoso sul suo destriero come un fulgido cavaliere. E all’ingresso dell’esposizione spicca il triplo ritratto di Carlo, che ha quasi un sapore surrealista: il quadro era stato dipinto da tre prospettive diverse perché era stato inviato a Roma al Bernini, che doveva servirsene come base per un busto del sovrano. La scultura è andata distrutta ma si è conservato l’insolito «modello», che già lo scultore italiano aveva riconosciuto come dipinto di squisita fattura.
Una sala della mostra è dedicata alle opere raccolte dalla moglie di Carlo, Henrietta Maria, figlia di Enrico IV di Francia e di Maria de’ Medici, che era andata in sposa al sovrano inglese a 15 anni. La regina mostra un gusto personale diverso da quello del consorte, sviluppato anche grazie alla sua amicizia con il cardinale Barberini e al suo rapporto con la corte papale: lei predilige opere del Barocco italiano, come quelle di Guido Reni, fa venire a corte Orazio Gentileschi e acquista lavori di sua figlia Artemisia. Interessanti anche i soggetti che affascinavano Henrietta: si tratta soprattutto di donne potenti, come a voler proiettare nell’arte la propria immagine. Pure in questo caso ci furono resistenze dei puritani di fronte alle «seduzioni papiste».
Anche per Carlo si può intravedere un filo conduttore tematico nelle opere collezionate: non c’è solo l’intento di accumulare capolavori alla rinfusa per illustrare lo splendore della corte, ma si tratta di seguire un istinto artistico che lo porta a prediligere quadri che illustrano la capacità dell’amore di vincere la guerra e ispirare la pace e la cultura. Un sottofondo che rischia di ribaltarsi in ironia tragica, considerando la fine fatta dal sovrano e il destino toccato alla collezione.
Dopo la sua decapitazione, nel giugno del 1649 il Parlamento inglese decretò la vendita dei beni del re: una prima parte andò a finanziare la marina, poi si passò a ripagare i debiti reali e infine si saldarono piccoli conti. Il risultato fu che opere di Tiziano, Tintoretto e altri grandi artisti finirono nelle case di sarti e idraulici che vantavano crediti presso la corte. Molti mercanti d’arte, ma specialmente gli ambasciatori di Spagna e Francia, fecero rapidamente incetta di questi capolavori e li portarono all’estero. Anche Henrietta, condannata all’esilio, se ne tornò in Francia con la sua parte di collezione.
Dopo la Restaurazione del 1660, che portò sul trono Carlo II, venne costituita una commissione per «la Scoperta e la Restaurazione dei beni del Re»: molti nobili restituirono le opere come gesto di buona volontà verso il nuovo sovrano e i suoi emissari presero a battere il regno alla ricerca di quadri e statue. Ma per ricondurre in patria quanto finito all’estero non ci fu nulla da fare: si è dovuto attendere l’intervento della Royal Academy quasi quattro secoli dopo.