La Lettura, 28 gennaio 2018
Sono la scimmia surrealista. Intervista a Desmond Morris
Il prossimo 31 gennaio il St. Hugh’s College dell’Università di Oxford celebrerà i novant’anni di una tra le figure più eccentriche della nostra epoca: Desmond Morris. Difficile perimetrarne l’identità. Zoologo ed etologo, ma anche scrittore e pittore, ha dato vita a un itinerario intellettuale che potremmo scandire in due tempi. A una lunga stagione di studi dedicata a esplorare gli aspetti che rendono gli esseri umani simili agli altri animali (testimoniata dal bestseller La scimmia nuda, 1967) è seguita una fase segnata dalla volontà di riflettere sulla «caratteristica più appassionante che ci rende unici»: l’arte. Cioè un’attività che differenzia gli uomini dalle altre specie. E possiede alcuni tratti distintivi, come Morris ha sottolineato nel suo importante trattato La scimmia artistica (Rizzoli, 2014). Morris sembra oscillare tra piani diversi. Per un verso, suggerisce un ritorno al pensiero dei filosofi greci. Per un altro verso, disegna i contorni di un’estetizzazione diffusa.
Mentre la scienza mira a «rendere semplice il complesso» e la religione aspira a «mitigare la paura della morte», l’arte, sostiene Morris richiamandosi ad Aristotele, vuole «rendere straordinario l’ordinario». Si dà come ostinata ricerca della meraviglia. Strategia dello stupore. Scarto rispetto al mondo com’è. Verità alternativa. Artificio per «rendere preziose le cose vili» (come aveva detto Shakespeare). Modificazione che «personalizza la rappresentazione e ne accentua l’intensità», compiendo esagerazioni, purificazioni, composizioni, variazioni.
Queste metamorfosi si possono scoprire non solo nelle grandi costruzioni iconografiche ma anche in tanti piccoli riti quotidiani: dalla sontuosa decorazione della Cappella Sistina al gesto dell’indigeno che mette le piume blu tra i capelli. Vi è un’analoga tensione «poetica» nella mano di un grande pittore che dipinge un affresco ma anche nella maestria con cui il membro di una tribù decora il proprio volto. Ad accomunare queste esperienze differenti, secondo Morris, è l’uso del cervello. Che ci porta al di là dei nostri bisogni originari; ci fa superare sfide difficili; migliora la nostra vita, rendendola più ricca, «tra la luce della nascita e la tenebra della morte».
E tuttavia, l’arte, per Morris, non è solo una geografia da osservare dall’esterno e da analizzare criticamente. È anche territorio da abitare: da conoscere dall’interno. Come dimostra la sua adesione al movimento surrealista. Che lo ha portato a realizzare – pittore clandestino – quadri attraversati da apparizioni biomorfiche o fitomorfiche, estratte da un archivio di sogni. Episodi di una liquida semiologia figurata. Esercizi visionari, che si muovono secondo le cadenze di una sorta di musicale arte della fuga.
A novant’anni Morris ha deciso di accostare queste due diverse tipologie di sguardi: quello dello studioso e quello del pittore. È nato così Le vite dei surrealisti, in uscita agli inizi di aprile in contemporanea da Thames & Hudson (in Gran Bretagna) e da Johan & Levi (in Italia). Si tratta di un volume divertente e piacevole, caratterizzato da un tono lieve. Vi si incontrano tante situazioni bizzarre e passaggi da mémoir.
Mescolando la tradizione delle vite vasariane con quella della grande divulgazione anglosassone, Morris racconta le esistenze di 29 artisti che hanno gravitato nella galassia del gruppo di Breton: da Picasso a de Chirico, passando per Bacon e Oppenheim, includendo dadaisti come Duchamp e personalità minori (Agar, Freddie, Maddox, Paalen). Questa cartografia è suddivisa in varie famiglie: gli «ortodossi», i «temporanei», gli «indipendenti», gli «antagonisti», gli «espulsi», i «fuggitivi», i «respinti», i «naturali». Le intenzioni di queste voci non sono coerenti. Alcuni artisti (Magritte) amano iscrivere oggetti realistici dentro teatri irrazionali; altri (Dalí e Delvaux) elaborano scenari veristici e, insieme, sottilmente onirici; altri (Miró) articolano sintassi distorte; altri ancora (Tanguy) inventano silhouette organiche; altri infine (Gorky) si fanno registi di minimi schemi visivi.
Mettendosi sulle orme delle caleidoscopiche proliferazioni surrealiste, Morris ne evoca l’intensità, il delirio, l’enigma. E lascia emergere la propria predilezione per un’arte dell’incanto. Capace di rimanere ingenua e infantile. Impegnata a esplorare i labirinti della nostra «Africa interiore». Fondata sul ricorso a forme primarie. Larve dell’inconscio.
In un recente libro («La curiosità non invecchia»), lo psicologo Massimo Ammaniti ha ricordato che «forse si invecchia veramente solo quando non ci si stupisce più, quando si dà tutto per scontato e la vita sembra non riservare più sorprese». E ha aggiunto che «si può essere vecchi e mantenere il gusto della conoscenza e sapersi ancora meravigliare degli insoliti colori di un tramonto, di un fiore che si schiude o di una bambina che ti sorride con aria divertita». Lei è una personalità «totale». Scienziato, scrittore, pittore. Ad animare le sue tante incursioni è soprattutto la curiosità?
«Ho sempre condotto una doppia vita. Il cervello umano ha due emisferi: mentre uno è specializzato nell’analisi fattuale, l’altro si occupa prevalentemente dell’intuizione e della fantasia. Sono uno scienziato analitico, che studia il comportamento animale e umano. Ma sono anche un artista surrealista, interessato al funzionamento della mente inconscia. Quando lavoro come scienziato, rendo semplice ciò che è complesso. Quando lavoro come artista, rendo complesso ciò che è semplice. Si tratta di due modi di pensare totalmente diversi. Da scienziato, quando noto un comportamento complicato, cerco di spiegarlo nel modo più comprensibile. Da artista, utilizzo materiali poveri, pochi tubetti di colore, e cerco di trasformarli in immagini ambigue. Tuttavia, anche se si tratta di due modalità di ragionamento differenti, la mia conoscenza degli organismi biologici, con le loro fisionomie e con i loro colori, è destinata a influenzare le visioni che dipingo. Ciò significa che i modelli elementari della vita animale influenzano il modo in cui eseguo i miei dipinti. Sulla tela, creo un universo parallelo di biomorfi, che hanno le loro regole e si evolvono lentamente. A novant’anni dipingo ancora nel mio atelier ogni sera fino alle 4 del mattino. Da scienziato, sto ancora scrivendo libri sul comportamento umano e su animali come i bisonti».
Uno dei tratti distintivi del suo lavoro di ricerca consiste nella sapienza con cui riesce a coniugare scienza e narrazione. I suoi libri somigliano a conversazioni con un lettore ideale: un po’ come quelli di un altro grande scienziato-scrittore, Oliver Sacks.
«Una volta un mio amico mi disse: “Posso capire ogni parola che scrivi, ma niente di quello che dipingi”. Un commento giusto. Mentre i miei dipinti sono volutamente criptici, quando scrivo cerco di usare un linguaggio semplice, facile da capire. Quando ero un giovane scienziato dell’Università di Oxford, usavo il gergo tecnico. Come tutti i miei colleghi. Quello che scrivevamo era difficile da comprendere: volevamo apparire il più possibile accademici. Poi, mi è accaduto qualcosa di inaspettato. Sono andato a Londra e ho cominciato a parlare di animali in tv. Ho curato un programma televisivo ogni settimana. Per undici anni. È allora che ho imparato a servirmi di un linguaggio più diretto: finché, alla fine, parlavo con la telecamera come se stessi parlando con un amico. Il rischio era di non essere abbastanza rigoroso. Così, tenevo sulla mia scrivania un biglietto: “Semplificazione senza distorsione”. Tentavo di essere scientificamente accurato ma, allo stesso tempo, chiaro. Questa lezione mi è tornata utile quando ho iniziato a misurarmi con libri scientifici, come La scimmia nuda, rivolti a un pubblico ampio».
Ha avuto intense frequentazioni con tanti pittori e scultori. Da Picasso a Duchamp, da Miró a Bacon, da Moore ai surrealisti. In che modo si è svolto il suo dialogo con questi artisti? Quanto ha inciso sulla sua attività di zoologo e di etologo?
«Negli anni Sessanta ho avuto la fortuna di incontrare alcuni dei più grandi artisti del XX secolo. Scoprii subito che erano diversi l’uno dall’altro. Bacon era modesto e pieno di dubbi. Sapeva che ero uno zoologo: era preoccupato che non approvassi la sua interpretazione pittorica delle espressioni facciali umane o di certi animali. Ricordo un suo dipinto che mostrava un babbuino colto mentre stava urlando. Forse l’aveva copiato da una famosa fotografia dove appariva un babbuino che, però, sbadigliava. Non osai dirglielo: sapevo che si sarebbe precipitato nel suo atelier e avrebbe distrutto quel quadro. Come gli capitava spesso di fare, perché non era mai soddisfatto. Francis viveva una vita sociale maledetta. Molto diversa da quella di Moore. Henry aveva un’esistenza familiare felice e stabile: avrebbe potuto essere un contadino dello Yorkshire. Anch’egli ha sempre voluto interrogarmi sugli animali. Miró, infine. Si vestiva come un banchiere o un diplomatico spagnolo. Era tranquillo e riservato. Parlando con lui, non avresti mai potuto immaginare quanto fosse drammatico il suo linguaggio. Era come se avesse destinato tutte le sue potenti emozioni solo ai dipinti. Moore e Miró erano tranquilli uomini di famiglia, mentre Bacon e Dalí erano selvaggi. Ma, pur se molto differenti tra loro, questi artisti avevano una cosa in comune: erano motivati a creare opere d’arte e lavoravano duramente, concentrandosi per lunghe ore nei loro studi».
Che posto attribuisce alla pratica pittorica nel suo itinerario? Un divertissement? Una necessità?
«Dal 1947 a oggi ho realizzato circa tremila dipinti e seimila disegni. Sin da quando ho iniziato a dipingere negli anni Quaranta, in qualsiasi luogo mi sono recato, ho sempre sentito l’urgenza di rifugiarmi per qualche ora in atelier anche improvvisati. Ho cominciato a esporre regolarmente solo dal 1987 e da allora i miei quadri hanno iniziato a essere acquistati».
In diverse occasioni, lei ha sottolineato come l’arte, a differenza del cibo o dell’acqua, non sia essenziale nella nostra esistenza. Una meravigliosa parentesi? O un’esperienza che fa parte di noi e di cui abbiamo profondo bisogno?
«Vi sono diversi tipi di attività umane: quelle che se non svolgiamo moriamo e quelle che abbiamo un forte desiderio innato di svolgere. Bere e mangiare appartengono alla prima categoria. Sesso e arte appartengono alla seconda. Possiamo sopravvivere come individui senza fare sesso e senza l’arte. Ma, in qualsiasi società umana, il comportamento sessuale e l’attività artistica hanno un ruolo decisivo. È risaputo che persino i prigionieri confinati in piccole celle rappresentavano immagini graffiando i muri di pietra. A Malta ci sono antiche prigioni dove, secoli fa, i marinai venivano confinati: si possono ancora vedere i loro disegni di navi incise sulle pareti calcaree. L’arte si manifesta anche nelle circostanze più difficili: rappresenta un impulso fondamentale della nostra specie».
Lei ha anche ricordato come, al di là delle epoche in cui è stata concepita, l’arte ha sempre avuto lo stupore come fine ultimo: rendere straordinario l’ordinario. Da Stonehenge a Picasso e Duchamp. E ancora: dal Duomo di Monreale al carnevale di Rio de Janeiro. Un ritorno a un concetto caro ad Aristotele, che nella «Metafisica» ha scritto: «Gli uomini hanno cominciato a filosofare (…) a causa della meraviglia»?
«Tutto ha avuto inizio quando gli umani preistorici hanno cominciato a celebrare il successo di una caccia. Nelle prime tribù di cacciatori-raccoglitori, l’uccisione di un grosso animale era motivo di gioia. Per rendere speciale quell’evento, le tribù decoravano il loro volto con colori vivaci, indossavano costumi speciali, facevano musica e ballavano. Così sono nate le arti. Da allora abbiamo sempre apprezzato coloro che sono riusciti a rendere le cose “straordinarie”».
In alcuni suoi scritti, ha parlato anche del talento artistico di scimmie come Congo e Sophie. Precisando, però, che mentre uno scimpanzé può disegnare come un bambino, l’artista può pervenire ai medesimi esiti formali ma con una diversa consapevolezza intellettuale e tecnica.
«I bambini e le giovani scimmie amano scarabocchiare e fare segni sulla carta. A mano a mano che crescono, le scimmie iniziano a organizzare le linee in composizioni astratte. Tuttavia, non creano mai immagini pittoriche. Mostrano i primi segni di una ricerca estetica. Ma non sanno andare oltre. Anche i bambini realizzano immagini quando sono molto piccoli e tendono a rappresentare soprattutto persone, animali, case. Ma, poi, sanno andare oltre».
In «La scimmia artistica» lei parla di un nostro antenato di tre milioni di anni fa, che raccolse un ciottolo dalla forma antropomorfa e lo portò in una grotta, dove fu trovato dagli archeologi. Quella, ha scritto, è la prima opera d’arte. Dopo milioni di anni, Duchamp ha inventato il «ready made» ripetendo quel gesto. Un modo per dimostrare che esistono inattese corrispondenze tra «ciò che è stato» in un tempo remotissimo e «ciò che è accaduto» in un secolo come il XX, dominato dal bisogno di proclamare il valore delle discontinuità e delle interruzioni? La storia dell’arte, un’infinita riscrittura di archetipi?
«Se portiamo un oggetto naturale fuori dal suo contesto e lo guardiamo in una nuova prospettiva, siamo in grado di convertirlo in un’opera d’arte, senza aggiungervi niente e senza alterarlo. Prelevato da una foresta e posto su un tavolo, un pezzo di legno diventa improvvisamente una forma affascinante, perché non lo consideriamo più come una parte funzionale di un albero ma come un oggetto a sé».
Nel suo orizzonte intellettuale, che ruolo assegna al surrealismo? Che cosa l’affascina del movimento di Breton? La volontà di smarrirsi tra i sottosuoli dell’io, per porsi in ascolto dell’inconscio, spingendosi al di là delle frontiere della ragione?
«Mi sono sentito subito vicino al surrealismo. Che, quando ero giovane, era considerato dalla maggior parte delle persone un’idiozia terrificante. Ora è cambiato tutto. Adesso sono tra gli ultimi sopravvissuti di quel movimento. Il surrealismo ha un significato speciale per me. Mi ha consentito di inventare nuove immagini, incurante di ogni mimesi naturalistica. Quando guardo una ragnatela, sono affascinato dal suo aspetto intricato: ma non ho il desiderio di copiarla. Perché, a mio parere, nessun artista può competere con la natura. Se voglio registrare l’aspetto di quella ragnatela, preferisco scattare una fotografia a colori di alta qualità: non eseguo un dipinto. Mirando a far emergere epifanie dalla mente inconscia, il surrealismo consente all’artista di esplorare la sua immaginazione più a fondo».
E ora sta dipingendo?
«Ho completato oltre 400 dipinti nel 2017 e non vedo l’ora di realizzarne presto molti altri».
Ci descriverebbe una sua giornata?
«Mi sveglio tardi. Faccio una colazione semplice. Trascorro il pomeriggio in riunioni, controllo le email, faccio telefonate, scrivo lettere, leggo la posta che ricevo. Poi, dopo aver preparato la cena, inizio un’altra lunga sessione di lavoro, scrivendo o dipingendo. Continuo fino all’alba. In questi giorni purtroppo mia moglie è costretta a letto con l’artrite: cucinare è diventata la mia nuova attività».
Come si prepara alla festa che le dedicherà l’Università di Oxford?
«Ho lavorato alla lista degli invitati per assicurarmi che nessuno dei miei amici fosse escluso!».