La Lettura, 28 gennaio 2018
Quando scrivo, piango. Funziona. Intervista a Jojo Moyes
Nei meandri della scrittura, le lacrime sono la sua bussola. «Se non rido, e soprattutto se non piango, vuol dire che c’è qualcosa che non va», racconta Jojo Moyes, autrice che grazie anche alla trasposizione cinematografica di un suo romanzo, Io prima di te, è diventata un fenomeno letterario da 30 milioni di lettori. Se si lascia guidare dalle emozioni è perché nella letteratura «deve esserci spazio per tutto», il libro da leggere in piccole dosi, così come quello da divorare tutto d’un fiato, con fazzoletto alla mano. La lirica, dopotutto, ha Wagner e Puccini (lei è fermamente dalla parte di Puccini).
A 48 anni, Moyes vive quello che a lungo era sembrato un sogno inafferrabile. «Non c’è giorno in cui svegliandomi non mi senta fortunata», ammette in quest’incontro con «la Lettura». Se in Gran Bretagna oggi non c’è libreria, supermercato o cartoleria che possa permettersi di non esporre i suoi libri, lei non ha dimenticato i dieci anni di giornalismo in cui scriveva la sera tardi o la mattina presto, i tre romanzi invenduti prima di trovare un editore, i tempi magri delle prime otto pubblicazioni in cui, per arrotondare le entrate, lei e il marito avevano allargato la casa per affittare una camera.
Tutto è cambiato il giorno che nella sua mente, senza preavviso, è approdata una scena: una coppia a un matrimonio che balla, lui su una sedia a rotelle, lei seduta sulle sue ginocchia. «Non mi era mai successo prima, e non mi è più successo, che due personaggi mi arrivassero in testa già completamente formati». Chi ha letto il libro o visto il film saprà che la scena è rimasta identica. Will e Lou, infatti, hanno fatto irruzione e non se ne sono più andati. Hanno preteso un primo romanzo, Io prima di te, un secondo, Dopo di te, e adesso il terzo, Sono sempre io, in uscita in Italia per Mondadori il 30 gennaio (l’ultimo, assicura Moyes). Certo, Will muore alla fine del primo ma la sua presenza continua a farsi sentire, «perché chi muore non ci lascia mai».
In «Sono sempre io» Lou è trasportata a New York tra gente stratosfericamente ricca, un mondo alieno dove anche il gatto ha l’agenda degli appuntamenti per la socializzazione e lo psicologo. Perché?
«Volevo metterla in un ambiente dove non conoscesse le regole. New York per un inglese sembra un posto facile, perché la lingua è la stessa, ma in realtà è un mondo completamente diverso, una città veloce che non perdona. Il successo di Io prima di te, inoltre, mi ha dato accesso alla vita di gente come i Gopnik, i miliardari dai quali Louisa va a lavorare. Mi hanno colpito diverse cose, prima fra tutte che vivono di continuo sotto gli occhi del personale. Non hanno un attimo di privacy».
La sorpresa e lo sconcerto di Lou di fronte a questo mondo, allora, sono un po’ quelli che ha provato lei attraverso il suo successo?
«Sicuramente le ho dato esperienze mie. Di fondo a me interessa la tensione tra chi ha e chi non ha, differenze che sono lampanti in una casa come quella dei Gopnik. C’è anche il fatto che chi non è abituato ad avere attorno lo staff, da una parte sfrutta queste persone ma, allo stesso tempo, li considera amici, mentre non lo sono. Per uno scrittore è una dinamica interessante, così come quella di una relazione a distanza. Gli uomini sono meno bravi di noi donne a capire che cosa stia succedendo, quando stanno cadendo nella trappola di un’altra persona».
Parla con cognizione di causa?
«In un certo senso sì. Mi ricordo una volta in cui mettendo in lavatrice le cose di mio marito ho trovato un bigliettino con il titolo di un film francese. Quando è tornato a casa gli ho chiesto cosa fosse, mi ha risposto che la ragazza del bar dove andava a prendere il caffè glielo aveva consigliato. Con nonchalance gli ho chiesto perché. Mi ha risposto che le parlava tutte le mattine, che era molto simpatica, eccetera. Così mi sono messa al computer e ho fatto una ricerca. Chiaramente era un film molto sensuale. Gli ho detto: caro, ti fa il filo. Ma no, mi ha riposto, non è nulla. Poi ci ha pensato meglio e ha deciso che avrebbe preso il caffè in un altro bar».
Beh, ha preso la decisione giusta.
«Sì, ma non è facile dire qualcosa. Prima di sposarmi mi era successa una cosa simile con un fidanzato. All’improvviso la sua ex era ricomparsa sulla scena, si palesava in ufficio, era piena di attenzioni. Quando ho fatto qualche obiezione mi è stato detto che non significava nulla, voleva solo parlare del passato, eccetera. Beh, ha vinto lei. È riuscita a riprenderselo. Ed è andata meglio così. Comunque, a proposito della relazioni a distanza, ammiro le coppie di attori che si organizzano per non stare lontani più di due settimane. La distanza è un problema. Alla fine non sei più la persona alla quale il tuo compagno racconta le piccole cose quotidiane, che in una relazione credo sia fondamentale».
Tornando alla questione delle lacrime, in quali punti ha pianto scrivendo questo libro?
«Quando Lou torna a Londra per sorprendere il suo ragazzo e prima di bussare alla porta lo vede dalla finestra con un’altra. Per me è stata una scena molto dolorosa. In Io prima di te ho pianto scrivendo la lettera che Will lascia per Lou. Ho pianto talmente tanto che l’uomo che lavorava nell’ufficio accanto è venuto a vedere se stavo bene».
Le dà fastidio che i suoi libri vengano definiti «chick lit», ovvero narrativa rosa leggera?
«Francamente non credo di avere il diritto di infastidirmi. Mi considero molto fortunata. Certo, come definizione la trovo riduttiva. Non mi vergogno di riuscire a far provare emozioni forti ai lettori. Mi dispiace un po’ che in questo Paese le copertine dei miei libri siano spesso rosa e un po’ infantili, ma capisco l’importanza del marketing. Ricevo spesso lettere di uomini che hanno letto e apprezzato, a sorpresa, i miei romanzi. Conservo il messaggio di un saldatore che aveva cominciato Io prima di te su consiglio della fidanzata. Un collega uscendo in cortile l’ha visto con il libro in mano e le lacrime agli occhi. L’ha letto anche lui e anche lui ha pianto. Credo che il problema sia anche che i recensori continuano a essere prevalentemente uomini e che ci sia un po’ di snobismo nei confronti di romanzi come i miei».
Lei ha un cottage che presta gratis a scrittori che hanno bisogno di un po’ di tranquillità.
«È tra le cose che mi hanno dato più soddisfazione. Attraverso questo cottage ho conosciuto persone meravigliose che hanno scritto e sono riusciti a pubblicare i loro libri. Come Candice (Carty-Williams) che adesso è una mia amica. Non era mai uscita da Londra. Ci ha messo sei ore a raggiungerci in campagna. Ho iniziato perché con l’elezione di Donald Trump, e il referendum sulla Brexit, mi sembrava importante fare qualcosa per sentirmi collegata al mondo, piuttosto che isolarmi dietro un muro».
Qual è la lezione più importante che ha imparato?
«La perseveranza. Bisogna sempre andare avanti. Lo dico spesso ai miei figli».